NELLA TASCA DEI MIEI JEANS

Forme. Nate da una nuvola di fumo bianco.

Sono tratti irregolari ma chiarissimi. È una sera di Roma che diventerà notte e la mia sigaretta non vuole saperne di spegnersi. Faccio un tiro mentre Trastevere si fa bella con i suoi mille colori.

Nic è lì, lui c’è sempre. Parliamo di viaggi, vacanze, pensieri sparsi che soltanto gli amici di una vita possono intrecciare. Sono seduto sul mio motorino parcheggiato a due passi da piazza Trilussa, al “Freni e Frizioni” il mojito è un “must”, la mano destra lo porta verso la mia bocca, mentre la sinistra tiene, fedele, la sua marlboro light morbida.

Dietro quelle forme irregolari e bianche c’è lei, con la sua camicetta azzurra. Sorride e si appoggia a Nic come se fosse anche lei dei nostri, tre di due. Sorride. È divertita, curiosa, serena, non finge. Ho sempre pensato che l’unico modo per starle vicino fosse starle a distanza, so quanto possono essere importanti i centimetri.

La chiacchiera scorre veloce assieme alle sigarette, quelle mie e di Nic, lei non fuma. C’è un attimo nella vita di ognuno di noi in cui capisci che qualcosa o qualcuno non è semplicemente lì. Non ricordo nemmeno di cosa stessimo parlando in quel momento, la sue mani appoggiate sulla spalla del mio amico si dividono.

Una, la destra, azzera tutti quei centimetri, scivola lenta dietro la mia schiena senza toccarmi, cerca spazio nella tasca posteriore del mio jeans ed entra con tutto il suo calore. La sua mano nel mio jeans, per qualche minuto, o per sempre. Sorrido, lei non batte ciglio, lo fa come se fosse il gesto più naturale del mondo, conquista territori.

Per un attimo mi fermo a pensare a quegli inutili centimetri e accendo un’altra sigaretta. Fumo, forme, stavolta tutte familiari. Sorrido ancora.

Nic,  superata la mezzanotte, ha l’occhio destro semichiuso e sbadiglia come nessuno, quanto mi fa ridere quell’omone grosso.  Salutiamo. Via, verso via Monte Fumaiolo 44, il mio rifugio. Lei mi segue sul suo motorino, si mette in scia come sa fare lei. Parcheggiamo, in una sera di fine luglio, che ormai  sta diventando notte e saliamo al secondo piano. Entro e nemmeno mi giro a guardarla, ho bisogno di stare scalzo. Tolgo le mie “stadsmith” e vado e rinfrescarmi i piedi, ho bisogno del mio pavimento freddo. Lei è incuriosita dalla mia stanza, vede i miei quadri di Klimt, credo sia un po’ imbarazzata, lo capisco.

“Bevi un limoncello?”.

sorridendo corro a prendere la bottiglia ghiacciata. Parliamo. Beviamo. E appena posso, appena lei si distrae, provo a rubare il suo sguardo. Siamo seduti vicini ma a distanza. Sigaretta. E’ una notte diversa, è una notte di fine luglio. Usciamo, rientriamo, ascoltiamo musica, restiamo distanti, impossibile non farlo. Parliamo e mi immagino lei che sorride mentre si toglie il suo foulard. La tasca del mio jeans fa invidia alla mia polo a strisce blu e rosse, rigorosamente verticali, “sticazzi” che le righe “allargano”. Non ce la faccio.

“Ho bisogno di un tuo abbraccio, adesso”.

Sono le quattro del mattino, ma come fai ad abbracciare in una notte d’estate quel viso così bello? Semplice,  si fa. Lei lo fa. E restiamo così per qualche minuto. Fa caldo. Il tempo si ferma lì, è un attimo scolpito nella mia mente. Non ho più voglia di fumare. Sono le sei del mattino…

“Devo andare”, la notte è finita. Si fida di me…

L’accompagno alla porta e torno dritto verso la stanza di una notte diversa, accendo un’altra sigaretta .

Diversa, unica, irripetibile. Anche lei. Sono felice. Passano venti minuti, il mio telefono si illumina: “Sono a casa”. Lei non lo sa ancora, i fatti spesso dicono il contrario, ma da quella notte non è più andata via. Da casa mia.

Raf

Don’t forget to smile

NELLA TASCA DEI SUOI JEANS

Nell’aria danza, come guidata da una musica a me sconosciuta, ogni istante una forma diversa dall’istante prima, si trasforma. Proprio come nella vita, come negli amori, nelle amicizie, osservi, attendi che cambi qualcosa, che si trasformi. Resto a fissarla, inebetita da quella nuvola di fumo, non riesco a distogliere lo sguardo. Si dissolve…

Una impercettibile fiamma brucia un angolino di carta in maniera difforme… sei alla tua terza sigaretta, in questa sera di fine luglio.

Roma pullula di gente, che vaga senza meta nelle strade. Noi siamo parte di quella gente e siamo intenti a chiacchierare dei massimi sistemi.

Nico ti prende in giro per la tua polo a righe dice che ” allarga”, in effetti sembra lo schermo di un vecchio televisore senza antenna. Quel tintinnio del ghiaccio nel tuo bicchiere mi distrae. Hai questa smania di raccontare, e sembra che le parole debbano uscire dalla tua mano, che però in questo momento regge un bicchiere di spritz, che continui ad agitare per dare forza al tuo discorso.

Una bella atmosfera intorno, una bella energia. L’estate ha i suoi vantaggi. Continuiamo a chiacchierare, il tempo si è fermato, i nostri sorrisi riempiono lo spazio, i nostri occhi di tanto in tanto si cercano, con discrezione.

Continuiamo a dare forma alle parole, poi mi soffermo su di te…giovane uomo, sui tuoi occhi, sul tuo sorriso, sei al tuo ultimo tiro di sigaretta.

“Principessa, tu che dici”…

“Nulla da dichiarare Vostro onore” , silenzio e poi esplodiamo in una risata intensa…e la mia mano nella tasca posteriore dei tuoi Levi’s 501.Resto lì per qualche minuto, intanto colgo un tuo sguardo furtivo sulla mia mano, come se fossi sorpreso…ma resto lì. Credo di aver bisogno di un contatto, di fidarmi finalmente, quella mano ti sta chiedendo supporto, ti sento vicino, ti sono vicina. Io continuo a chiacchierare e tu sei li , forse imbarazzato, non capisco. Per me è tutto così naturalmente ovvio…

Per qualche minuto ti sento sospeso. Ritraggo la mano.

“Che si fa? Prendiamo un altro drink o facciamo un giro?”

“Bhe direi facciamo un giro, abbiamo consumato la ringhiera”.

Due matti, pieni di vita, prendiamo i nostri motorini, iniziamo a girovagare come molti senza meta.

Roma è così bella la notte. Noi lo siamo ancor di più.

Non siamo vittime del tempo, possiamo sentirlo e gestirlo come vogliamo e allora :

“Principessa che dici vogliamo bere un limoncello da me?

” Ok , fammi strada”.

Senza esitare seguo la tua scia, in ogni curva, il vento sul viso mi regala un soffio di vita in più e sorrido, scorgendo che mi stai osservando dallo specchietto retrovisore, attendendo che il semaforo diventi verde.

Adoro Roma la notte.

Siamo a casa. Sembra quella di uno studente, anche se da tempo non lo sei più. Uno stendino nel corridoio, ingombra il passaggio.

“Non badare al disordine, il mio coinquilino è fuori e ha lasciato tutto in giro”.

Ti sorrido, ma che mi frega del disordine, penso immediatamente.

Ti seguo nella tua cameretta da uomo single. Libri, stereo letto singolo e cianfrusaglie su un mobile a destra.

“Questo è”!

Ti sorrido poso la mia borsa a terra in un angolo. Sono contenta di essere qui e di scoprire qualcosa di te.

“Mi lavo i piedi e torno, non sopporto più le scarpe”.

“Anche io ho questa abitudine, tranquillo ti aspetto in balcone.”

Totalmente a mio agio ti aspetto. Il silenzio della notte è nostro complice. Resto a fissare le stelle, in questa zona di Roma è più semplice vederle. E’ tutto così’ meravigliosamente semplice.

Rientri in camera con due bicchierini pieni di limoncello ghiacciato, a piedi nudi, brindiamo e tu accendi una sigaretta. Ho perso il conto ormai.

I nostri respiri nel silenzio fanno rumore.

Il limoncello ghiacciato entra in circolo e rinfresca.

” Questo è, se qualcuno dovesse togliermi questo…potrei morire”.

“Cosa?”

“Questo, lo senti, questo silenzio, queste stelle, questa serata pazzesca, questa pace, questo limoncello, questa sigaretta”, e intanto una nuvola di fumo avvolge il tuo sguardo.

“Si lo capisco, a volte basta veramente poco”.

Non abbiamo bisogno di parlare, ci piace così, per noi parlano i nostri occhi questo silenzio ancor di più. Non abbiamo bisogno di nulla, ci godiamo questa pace, e scorgo il tuo viso sereno, rilassato.

L’aria inizia a farsi frizzantina, mi regala quei brividi che mi fanno sentire viva. Che strana sensazione, dopo tanto tempo il mio animo è in pace. Sono serena, la mente sgombra.

Rientriamo in stanza, è tempo che io vada, ma mi chiedi di abbracciarti.

Il panico mi assale, perché? Perché deve rovinare tutto in questo modo, perchè appena inizio a fidarmi qualcosa viene rovinato.La pace viene interrotta da una tempesta. per la prima volta quella sera sono imbarazzata e non più a mio agio.

Ti sei accorto dei miei pensieri, purtroppo gioco a carte scoperte:

Hey che succede, ho solo bisogno di un abbraccio, mica altro, cazzo principessa fidati”.

Allora mi sento una stupida ragazzina, il sorriso esploso dopo quelle parole nuovamente mi tranquillizza.

Tutto così meravigliosamente strano.

Un vortice di emozioni, sensazioni incomprensibili e pazzesche. Sento il tuo cuore battere forte. I nostri respiri viaggiano all’unisono. Pochi attimi per sentire il tuo calore. Forse anche io ho bisogno di questo abbraccio, ho bisogno di sentirmi parte di qualcosa, di qualcuno, in questo momento particolare della mia vita. Poi presa come da un raptus decido che è ora di andare.

“Dai fumiamoci un’altra sigaretta e poi vai”.

“Accendo io”.

Porto la sigaretta alla bocca, e do fuoco. Non dedita al fumo, al primo tiro un feroce colpo ti tosse mi blocca il respiro, inizio a ridere come una matta in libertà. La mia risata salta da un palazzo ad un altro come una eco impazzita. Scorgo i tuoi occhi ridere con me.

Il secondo, il terzo tiro, poi condivido con te quel gesto. Una nuova nuvola di fumo, questa volta è complice, questa volta è diversa… dietro di lei…l’alba di un nuovo giorno…

 

Raf

Don’t forget to smile

 

 

SPRING DREAMS – THE END

Facendo capolino da un albero, un uomo forse quarantenne, scuro, occhi meravigliosamente luminosi, mi fa cenno di seguirlo.

Senza esitare lo seguo. Mi sono detta “Raffa tu sei matta, ma ti pare normale che un tizio qualsiasi, in un posto qualsiasi, in mezzo al niente ti fa un cenno e tu gli vai dietro? Ti rendi conto che non va bene?”.

Ma in fondo cosa c’era di normale?

Mentre l’uomo mi guida chissà dove, lo studio attentamente.

E’ alto, ha delle spalle vigorose, indossa dei pantaloni scuri, una camicia bianca che gli copre i fianchi, non indossa scarpe. Mi soffermo sulle sue mani, affusolate, come di un pianista. Sono curiosa di vedere il suo volto ma non si volta.

Camminiamo a lungo.

Quel posto sembrava il paradiso.

Magari sono morta con infarto sul divano di Anto ed ora questo tizio mi condurrà da qualche parte per espiare i miei peccati, potrebbe un tizio tipo Caronte o essere un angelo”.

Nel mentre un ramo mi si conficca nel piede, un urlo di dolore inevitabile.

Quel grido di dolore distrae l’uomo che si ferma senza voltarsi per qualche secondo,  poi corre verso di me.

Il suo sguardo accigliato, è bellissimo, ma sono spaventata.

Si avvicina, mi indica con dei cenni di togliere le mani dal piede, non emette un fiato. Scruta con occhio attento la pianta del mio piede, estrae la scheggia e poi porta il piede alla bocca aspirando con le labbra e poi voltandosi sputa le schegge più piccole.

Il mio viso in fiamme, ma non mi oppongo a nulla, non ne ho la forza. Riesco solo a stare immobile e ad osservare i gesti di quell’uomo sconosciuto, che con un sorriso, che mi arriva nello stomaco, mi fa cenno di proseguire tendendomi la mano.

Inebetita, il mio cuore a mille.

“Allora sono morta, forse questo è il mio paradiso e lui è il mio premio per aver saputo attendere”..

Penso a tante stupidaggini che inevitabilmente, nasce un sorriso.

L’uomo continua a tenermi la mano. Ora sembra di conoscerlo da sempre.

Lì intorno la vegetazione è straordinaria, gli alberi sono così imponenti, la natura dimostra in pieno la sua maestosità. Tutto questo è appagante. Un percorso fatto da una piccola stradina in salita conduce ad un altare fatto di legno.

“Che cos’ è questo posto?”, ma nessuna risposta solo uno sguardo come se io potessi leggergli nel pensiero.

“Ma chi sei? Continuo a domandargli. Non mi ha mai più lasciato la mano, e la stretta è forte, sicura. Mi sento protetta.

Mi sento una stupida. Sono presa inevitabilmente, irreparabilmente da questo sconosciuto.

Tutto così assurdo. Ma mi piace.

Non so per quanto tempo ancora camminiamo, senza mai dirci una parola…

Usciamo dal bosco per ritrovarci in una cittadina, antica, non ho la più pallida idea di dove sia collocato questo posto. Attraversiamo una lunga strada fatta di mattoncini, imbocchiamo stradine, saliamo e scendiamo gradini.

Questo posto è adorabile, ma ho sete e sono stanca. Poi arriviamo in una piazza con una chiesa.

Tutto questo non ha senso, ma mi sento a casa.

L’uomo si volta verso di me, i suoi occhi sembrano vedere oltre, e questo mi imbarazza, poi con un gesto della mano mi mostra dove guardare.

E i miei occhi vedono l’infinito.

Mi soffermo per qualche istante, l’uomo allenta la presa della mia mano, ma non lo lascio andare, stringo più forte e lui desiste.

Gli dico: “Grazie”. Lui mi risponde con uno dei suoi sorrisi diretti allo stomaco.

Il mio viso si ritrova tra le sue mani. Con una carezza sposta i miei capelli dal viso.

Il mio cuore sta per uscire dal petto. E’ assurdo lo so, ma meraviglioso. Sento anche il suo cuore attraverso le sue mani sulle mie guancia.

Una voce in lontananza…. “Raffa, il bagno è libero”!

Non capisco.

“Raffa dai altrimenti facciamo tardi per la cena”!

Il mio principe si dissolve nel sole, il suo sorriso è l’ultimo ad andare via..

“Allora ci sei?”

Apro gli occhi e Anto è lì, ad attendere il mio risveglio.

“Ohi ma che hai nei capelli? Sei stata in giardino?

Metto la mano nei capelli e ritrovo qualche ciuffo di erba, allora il mio sguardo va sui piedi, non indosso le scarpe.

Anto mi guarda incuriosita: “Sembra che hai visto un fantasma?”

No, solo lui”.

“Eh?”

“Nulla”!

Iniziamo a ridere come sempre e mi distrae la mia valigia aperta…..il vestito di cenerentola è lì.

Raf

Don’t forget to smile

 

 

SPRING DREAMS

Quando il sole inizia a prendere prepotentemente possesso del cielo azzurro, quando l’aria diventa frizzante ed i profumi della natura ti penetrano nel sangue, ti prende la voglia di liberarti dai vestiti ingombranti che non permettono al tuo corpo di “respirare”, vuol dire che la primavera è arrivata.

Almeno per me è così.

Via i maglioni, via scafandri imbottiti, sciarpe, guanti, via gli stivali, via colori scuri che rendono l’inverno ancora più pesante: via! E’ il momento di partire.

La primavera ha degli effetti pazzeschi. Il mio corpo si risveglia da un lungo letargo e avverto costantemente il desiderio di uscire, esplorare, vedere. Allora perché non accontentare e seguire il mio istinto.

È ora di partire.

Meta prescelta Umbria. Dopo 1 anno rivedo Anto.

Sabato mattina, valigia pronta, si parte.

Decido di prendere un autobus che arriva direttamente a Perugia, voglio godermi ogni istante e vedere tutto.

Tiburtina – Perugia circa due ore.

Il viaggio è piacevole, il sorriso del sole attraversa il vetro del finestrino dell’autobus e bacia il mio volto. La musica anni 80’, che mi ha caricato gentilmente il mio capo nell’ipod, accompagna il susseguirsi dei paesaggi durante il percorso.

I miei occhi sono incantati dalla bellezza di quelle immagini che scorrono come diapositive, una dietro l’altra.

Arrivata a Perugia mi accoglie l’abbraccio sincero di Anto che mi conduce alla sua macchina.

Abbiamo tante cose da raccontarci.

Un anno, ma sembra ieri.

Esperta di quei luoghi, mi illustra il programma della visita. Ha organizzato tutto nei minimi particolari.

Perugia è incantevole. Adoro i vicoletti in cui perdermi. Quel profumo profondo di antico, di storia, che si respira in ogni dove, lo si percepisce nell’aria e lo si vede su ogni portone di legno massiccio, su ogni mattone incastonato nel muro, ad ogni passo sulla strada. La cattedrale maestosa governa la piazza e guida sul viale centrale.

Mentre Anto mi racconta qualche aneddoto, arriviamo in una stradina.

“Questa è la strada degli artisti, via della viola”.

Adoro questo posto, a destra e a sinistra piccole botteghe di artigiani, che lavorano la ceramica, le stoffe, la cartapesta. Tutta la stradina è decorata con pezzi d’arte. Dipinti e quadri sui muri, o piccoli pupazzi sospesi nell’aria. Cerco di immagazzinare il più possibile.

Il sole inizia a raffreddarsi, sta per lasciare il posto alla luna, per noi è l’ora di una tisana con biscotti.

Anto ha sempre uno splendido sorriso, ha un’energia pazzesca come quando eravamo a scuola.

“Allora come va? Come procede la vita a Roma?”

In breve le faccio una sintesi delle mie giornate, dei miei amici, dei miei progetti.

Inevitabilmente si finisce a parlare di uomini.

Scoppiamo entrambe in una risata liberatoria. Ci raccontiamo le nostre esperienze, sappiamo esattamente cosa vogliamo e l’idea di accontentarsi non ci appartiene.

“e come dice mia madre…resterai zitella ti devi trovare uno che ti fa compagnia”.

Una enorme risata rimbomba in casa.

“Io vado a farmi una doccia, tu fai quello che ti pare sei a casa tua”.

In attesa di uscire per la cena, decido di mettermi sul divano, non riesco a togliere neanche le scarpe che, i miei occhi si chiudono, come se colpiti dalla pesantezza e bellezza delle emozioni vissute fino a quel momento.

“Il mio respiro è lento, delicato, scandito dal battito del cuore… lo sento.

Nelle mie narici un profumo di terra, di erba fresca tagliata. Un leggero solletico sull’occhio destro, mi stuzzica. Porto la mano al viso per strofinarmi e mi ritrovo tra le dita una coccinella che mi guarda intimorita. Cerco di non farle del male appoggiandola su un rametto.

Un rametto?

Mi guardo intorno. Alberi maestosi, che intrecciano i loro rami, il sole fa capolino tra le fitte foglie.

Sono sdraiata. In un parco? In un bosco?

Non lo so. Ho un vestito che sembra quello delle principesse delle favole. Il mio cuore inizia a farsi sentire in maniera più insistente. Credo che sia spaventato.

Non ho le scarpe.

Cerco di respirare a pieni polmoni alzandomi da quel letto di foglie ed Humus ed inizio a camminare.

Nonostante non riesca a capire cosa stia succedendo non ho paura. Mi guardo intorno cercando Anto, o qualcosa di familiare ma nulla, la natura mi circonda.

Inizio a muovermi.

Il mio sguardo si perde nei riflessi del sole tra le foglie, il mio udito volto ad ascoltare il canto degli uccelli, i miei occhi piacevolmente impressionati dai giochi di luce creati dal sole su alcune pietre.

Poi qualcosa mi distrae. Un’ ombra.

Si nasconde dietro un albero, riesco a vedere soltanto una spalla, quella destra, mi sembra un uomo.

Hey ciao!” ma nessuna risposta al mio saluto.

Si sposta dietro un altro albero

Mi sento una stupida ma gli parlo:” Ciao io sono Raffaela, per favore mi sai dire dove siamo”.

Come se fosse una cosa normale, ritrovarsi in mezzo alla natura con indosso il vestito di cenerentola, invece che sul divano della tua amica.

La mia domanda non riceve risposta.

Provo ad avvicinarmi e allora si palesa.

Raf

Don’t forget to smile

 

TO BE CONTINUED…

 

 

Eroe

Ore 4.18 del mattino.
I miei occhi improvvisamente si aprono come se la notte fosse finita.Un sorso d’acqua, poi la pipì di rito, un’occhiata al telefono e mi rimetto a letto tentando di sfruttare le ultime ore di buio per rilassare il mio corpo. Ma nulla, Morfeo decide di abbandonare i miei occhi. Mi rimetto sul divano, mi gioco l’opzione tv, le televendite che solitamente giocano un ruolo fondamentale nella ripresa della mia sessione di riposo, questa volta non mi aiutano, non hanno l’effetto soporifero desiderato.“La musica, la musica è quello che ci vuole”. Allora premo “on” del mio nuovo giradischi, sistemo con cura il disco di Sting, posiziono la puntina ed ecco le prime note arrivare alle mie orecchie ed al mio cuore.

Nel voltarmi per andare a stendermi sul divano, sono attirata dai miei diari posti in un angolo della libreria, decido di prenderne uno e di iniziare a sfogliarlo.
Su ogni pagina un disegno, il mio nome in grassetto, o una di quelle frasi, a mo’ di filastrocca tipo: ”C’è chi scende e c’è chi sale ma tu che sei il mio amore puoi prendere l’ascensore”, oppure “Conosco un ragazzo di nome non lo so ma quando mi bacia mi mette K.O.” e frasi di canzoni di artisti ormai sconosciuti.
Leggendo quelle pagine, immagini si sovrappongono nella mia mente, immagini chiare.
Un pensiero: “Accipicchia, ma quanto scrivevo!”.
Poi la mia attenzione ricade su pagine e pagine di inchiostro. Non c’è data. Inizio a leggere.

“Caro diario, siamo in vacanza finalmente, siamo arrivati qualche giorno fa in campeggio in un posto bellissimo. La scuola è lontana e mi godo questi giorni di vacanza allontanando dai miei pensieri i compiti, e la maestra. Sono in roulotte ora, tutti fanno il riposino pomeridiano, ma io sono troppo agitata per farlo, poi la nonna ha iniziato a respirare in modo pesante. Come sai io e lei condividiamo il letto.
Approfitto della calma e ti scrivo.
Oggi ho trascorso una bellissima giornata e sono felice.Il sole di agosto è caldo caldo, il cielo è limpido e sembra unirsi al mare se provi ad allontanare lo sguardo.Questa mattina in spiaggia il mio cuore si è riempito di gioia.

Michy ed io eravamo in riva al mare, dopo essere state in ammollo in acqua per molto tempo, stavamo giocando con la sabbia, facendo scritte o disegni e sfidandoci a “Tris”, quel gioco in cui bisogna mettere tre “0” o tre “X” in fila per poter vincere. Le nostre risate rombavano nell’aria trasportate sulla spiaggia dal vento, fino ad arrivare alle orecchie vigili di papi, che da lontano ci osservava sorridendo.
Papi aveva appena finito di pescare, era rimasto ore in acqua con la sua fantastica muta che lo copre tutto, sembra un omino di gomma. Tutte le volte Michy ed io lo aiutiamo a vestirsi e a svestirsi, gli prendiamo il fucile, le pinne e il bottino della giornata, polpi, cozze, pesci vari, e con aria beffarda ai ragazzini, che sono incuriositi dai tentacoli dei polpi, ho detto: “Non toccare questi li ha presi mio padre”. Eh si, non devono toccare, è una cosa veramente fastidiosa.
Comunque poi finiamo sempre per prenderlo in giro perché anche se papi toglie la maschera, dopo due ore ancora ne porta i segni e allora: “papi ti sei dimenticato di togliere la maschera, guarda che sulla spiaggia non serve!”

E’ sempre così, poi ridiamo.
Abbiamo continuato a giocare sul bagno asciuga,facendo cose con la sabbia, polpette, torte. Papi attirato dal nostro impegno ci ha raggiunte e ci ha proposto: “Vi va di fare una nave?”.

Che domanda è? Ovvio, pensai. Mio padre come sai lavora alla Fincantieri e lui le fa le navi.Papi ci chiede di raccogliere la sabbia umida tutta in un lato, per fare una sorta di montagna. Con le ginocchia ficcate nella sabbia, ha iniziato a stendere il mucchio di sabbia dandogli una forma di gianduiotto. Ci ha chiesto poi di lisciare prima un lato e poi un altro e ci ha indicato come fare.Fantastico, in poco tempo la forma era chiara. Non è stata una costruzione di quelle che fanno gli altri ragazzini, era grande, maestosa e proprio per questo gli altri ragazzini si sono avvicinati per capire di cosa si trattasse.

Noi tre abbiamo continuato a lavorare. Gli altri bimbi ci guardavano e noi gongolavamo. Mia sorella ed io abbiamo seguito alla lettera le indicazioni e dopo un po’ di tempo eccola, LA NAVE.
La nave di sabbia più bella che ho mai visto. Abbiamo fatto le finestre rotonde, aiutandoci con i polpastrelli, abbiamo messo anche la bandiera fatta con un bastoncino ed un pezzetto di fazzoletto di carta rubato alla nonna.
Bellissima, talmente tanto che intorno il numero dei ragazzini è cresciuto, gelosi, volevano subito distruggerla, allora papi con voce impositiva ha detto: “Uè ja dopo, ora giocate tutti insieme”.
Come da tradizione la nave va battezzata e papi con fare solenne, dopo aver riempito uno dei nostri secchielli di acqua, ne lancia un po’ con una mano sulla nave e dice: “Ecco e pure il varo è stato fatto, ora può navigare”.

Michy ed io siamo state entusiaste. I nostri occhi hanno brillato per la felicità. Orgogliosi di papi e di poter dire a quei ragazzini impudenti:“Questa l’ha fatta il mio papà”.

Dopo un po’ la nave è stata distrutta da quei ragazzini antipatici e scostumati, appena ci siamo allontanatati. Mi sono arrabbiata, cacchio: “Papi la nave, uffa”.
“Eh dai non fa nulla, stanotte il mare l’avrebbe comunque portata via, domani ne facciamo un’altra più grande”.

Caro diario
Papi è un tipo veramente tosto, penso che lo sposerò quando diventerò grande. Eh si è proprio il mio eroe, Michy ed io lo amiamo tanto, spero che non lo voglia sposare pure lei però, altrimenti come si fa, mah.
Va bene ora ti lascio, qui iniziano a svegliarsi tutti.
ti scrivo presto.
Ciao
Raffa”.

Un sorriso sul mio viso, la mia dolce ingenuità, e l’amore colto in quelle righe, mi hanno convogliato alla mente una serie di ricordi. Mio padre.

Le nostre partite di calcetto, la collaborazione nello smontare casa per fare i lavori, le rosette con il prosciutto cotto mangiate insieme, i massaggi sulla schiena della domenica mattina, fatti con i piedi durante i quali non riuscivo a tenere l’equilibrio, la compilazione delle schedine del totocalcio il sabato, un rito in casa Anastasio, e poi l’orto, Teresinella la nostra gallina…wow una vita di immagini…una vita.

Mi rendo conto che tutto ciò avviene quando domenica è il giorno 19 marzo, la festa del Papà.
Continuo a sorridere perché la vita è fatta anche di questo, di fantastiche coincidenze, o casi.
Allora uso questa coincidenza per fare qualcosa che Michy ed io non abbiamo mai fatto o almeno non abbastanza spesso.



“Caro papi,
dopo anni ancora ti chiamiamo come quando eravamo ragazzine.
Per tutto il tempo della nostra vita sei stato il nostro fidanzato ideale, la nostra colonna portante, la nostra forza. La vita ci ha riservato belle e brutte sorprese, magari molte cose non sono andate come avremmo voluto, ma siamo rimasti sempre noi, padre e figlie, nonostante tutto.

Il nostro papà.
L’ uomo che cucinava per noi dei meravigliosi calzoni ripieni di mozzarella e pomodoro. Quel profumo invadeva casa. L’uomo dalle mille risorse. Non c’era cosa che tu non sapessi aggiustare o fare.
L’ uomo del segno del capricorno, testardo, sindacalista in cerca di giustizia e di verità, non hai mai pensato alle conseguenze, hai sempre lottato per ciò in cui credevi, ci hai insegnato a non arrenderci, mai.
L’uomo rappresentante di classe, che coordinava e proponeva le nostre gite fuori porta, il nostro orgoglio.
Abbiamo attraversato momenti duri, in cui non abbiamo saputo distinguere la rabbia dall’amore, abbiamo riso, gioito insieme. Abbiamo visto la fierezza nei tuoi occhi quando abbiamo superato delle tappe importanti della nostra vita.
Abbiamo visto i tuoi occhi illuminarsi alla nascita dei tuoi nipoti, e la tua incredulità nel vedere tua figlia maggiore con in braccio un frugoletto.
Abbiamo visto le tue lacrime, che non avremmo mai voluto vedere, e la tua fragilità.
Abbiamo visto la tua disperazione, la tua ira contro la vita che non stava andando nella direzione che volevi.
Abbiamo visto la tua gioia per una nostra vittoria.
L’uomo dallo sguardo ipnotico. Eh già, ti bastava solo uno sguardo, in cui arricciavi le sopracciglia, e una serie di rughette in mezzo alla fronte, ci intimavano di fermarci.
Ti abbiamo visto non mollare nell’insegnarci a nuotare e applaudirci quando restavamo a galla da sole.
Ci hai insegnato ad andare in bicicletta, e hai soffiato sui graffi alle ginocchia provocati dalle svariate cadute. “Dai, non è nulla ora si asciuga”.

Abbiamo visto la tua preoccupazione per la nostra prima volta in motorino, e il tuo terrore per la nostra prima volta in macchina, con una mano agganciato al finestrino e l’altra sul freno a mano.

La tua gelosia di padre, per i nostri primi innamoramenti, non tutti ti sono piaciuti e spesso ti abbiamo anche deluso per le nostre scelte.
Abbiamo visto la tua commozione, quando hai dovuto lasciare tua figlia maggiore nelle mani di un altro uomo.
Abbiamo avvertito anche la tua paura.

Il tuo sangue scorre nelle nostre vene, il tuo dna è il nostro, fiere di portare il tuo cognome come il più importante del mondo, tutti ci conoscono perché siamo le figlie di “Angiolill Anastasio”.

Il nostro legame è per sempre, non ci saranno liti, non ci saranno persone, non ci saranno eventi, malelingue che ci potranno dividere.
Le nostre vite sono indissolubili. Anche se siamo distanti noi saremo sempre insieme.
Troppo spesso ci manchi.

Tu sei il nostro uomo, sei il nostro eroe per la vita.
Ti amiamo per questo, non dubitarne mai.

Auguri Papi

Raf e Michy
Don’t forget to smile

Il tempo delle mele

“La musica invade la stanza, ragazzi ballano come scimmie impazzite e urlano e chiacchierano in ogni angolo.
Il tempo di una limonata per dissetarmi per poi riprendere le danze, ma questa volta è diverso.Qualcuno mi appoggia sul capo delle cuffie che diffondono note dolcissime, un sorriso sul mio volto e lui, il mio principe azzurro, il mio amore assoluto, mi tiene stretta in un lento.

Isolati dal resto della festa, isolati dal resto del mondo, non abbiamo bisogno di null’altro, se non di noi e di quella musica….”

Antonella mi scuote chiedendomi di smettere di sognare e che il film “Il tempo delle mele” è solo un film e che non ero l’attrice protagonista.
Le mie fantasie distrutte in un momento, dalla voce della realtà. Ma non mi arresi. Da lì a qualche giorno sarebbe stato il mio compleanno. Allora pensai che a volte, se ci credi, i sogni si realizzano, bisognava procurarsi i mezzi.

Chiesi in regalo un walkman, proprio come quello che avevo visto in quel film, “bisognava dare una mano alla fortuna”, pensai, il principe azzurro aveva bisogno di aiuto.

Il tanto atteso regalo arrivò.

L’emozione mi pervase al momento di scartare il regalo. Adoravo la carta che si strappava sotto le mie mani con quel rumore unico ed inconfondibile.

Eccolo il mio primo Walkman.
Custodito da un involucro di cartone, era leggero come il mio cuore in quel momento. Intravedevo le cuffie poste in un angolo della confezione.

Avevo la musica nelle mie mani.
Il mio mini stereo portatile era di due colori, insolito per un walkman, era giallo e lo sportellino per inserire la cassetta, verde acqua. I tasti Play , Rewind, e Forward neri. Le cuffie avevano la spugnetta arancione e l’archetto regolabile.
Non vedevo l’ora di provarlo, ma non mi fu possibile, mancavano le quattro batterie, dalle quali attingeva energia.
Il giorno seguente non stavo nella pelle, andai da Antimo, il mio giornalaio di fiducia, ed acquistai 4 batterie.

L’attesa finalmente finì.
Dopo aver impiegato circa 10 minuti per capire il verso di inserimento delle batterie, sollevai lo sportellino verde acqua inserì la cassetta con la compilation di Eros Ramazzotti, poggiai le cuffie sulle orecchie, tasto play, (adoravo quel click) e mi si aprì un mondo.

Avvolta dalle note di “Musica è”, viaggiavo in un mondo parallelo. Il suono, la musica arrivava diritto al punto, al cuore, all’anima, mi sembrò che fosse diversa, palpabile, reale, come se così non l’avessi mai sentita.

Il walkman diventò ben presto una parte di me, un prolungamento, grazie al quale potevo estendere i limiti sensoriali del mio corpo. Usavo la musica per studiare, per passeggiare, per isolarmi dal mondo quando pensavo che il mondo fosse contro di me, lo usavo per non sentire la nonna russare, per piangere a tempo di musica per un brutto voto a scuola o per placare la mia rabbia per un flirt andato male, e per sognare.

Ben presto scoprì, che nulla è per sempre. Il mio smoderato uso del walkman, comportò l’acquisto di batterie ogni 3 quattro giorni, 5 se ascoltavo i cantanti con la voce rallentata e con toni demoniaci.

Dopo qualche tempo trascorrevo pomeriggi interi a srotolare la pellicola delle cassette.
Il nastro si arrotolava alle testine, in un modo che per scioglierlo, impiegavo interi pomeriggi, mi applicavo come un chirurgo. Dopo aver usato il mignolo per riavvolgere e recuperare la pellicola arrotolata, la biro bic mi venne in soccorso. Casualmente fatta in modo da combaciare con i gancetti della bobina. Tutto divenne più veloce e divertente.
Il principe azzurro non lo ricordavo più. Non era più una priorità.
Le cuffie mi isolavano, ritagliando pezzi di tempo tutti per me. In estate non risultavano comodissime, ti facevano sudare pure i timpani, ma non ero molto esigente, mi bastava la musica.
Da quel giorno si sono alternati nelle mie borse walkman di ogni genere, con accessori aggiunti per ascoltare la musica in due, per registrare, per ascoltare i cds, e poi auricolari, ipod, cuffie bluetooth…
Oggi semplicemente degli oggetti incredibili, che usavano gli antenati.
Ma quanto era bello premere Play e attendere dopo un giro di fruscio della cassetta, che le note ti invadessero l’anima e che il sole ti sorridesse?

COSA RESTERA’ DEGLI ANNI 80′

Raf
Don’t forget to smile

Sanremo il Festival

Febbraio 2017

Come da tradizione sono posizionata davanti al televisore, sintonizzata sul primo canale della tv nazionale e pronta alla 67’ edizione del Festival di Sanremo.

Carlo Conti e Maria De Filippi i conduttori dell’evento.
Il Festival anche se è mutato nel tempo, ha sempre un suo fascino, tanti ricordi ruotano intorno a questa manifestazione.
Il Festival ha inizio soltanto quando collegata via social con mia sorella, iniziano i commenti per ogni canzone ed ogni vestito indossato da questo, o quell’artista.
Molto diverso da quando eravamo solo delle ragazzine….

“Registratore pronto, cassetta da 90 minuti inserita, posizione strategica per catturare il suono nel migliore dei modi.

“Signori e Signore benvenuti alla nuova edizione del Festival di Sanremo”. La voce imponente di Pippo Baudo, annunciava l’inizio della tanto attesa manifestazione.

La folla impazzita, applausi, urla di incitamento, mia sorella ed io in attesa della prima canzone.
Il solenne annuncio, presentazione del direttore d’orchestra per quell’artista e rec…silenzio in casa…
Era tutto così magico.

Ad una settimana prima dell’evento “TV sorrisi e canzoni”, pubblicava in copertina i cantanti finalisti.

All’interno la rivista, proponeva tutti i testi dei brani, che mia sorella ed io studiavamo attentamente inventando la base musicale.

Mia madre ci consegnava 5000 lire per comprare le audio cassette nel nostro negozio di fiducia “Somma”. Le cassette costavano 2.500 lire l’una e dovevano essere della Sony e di 90 minuti.
Il sabato della finale tanto atteso, non tardava ad arrivare.
Si cenava rapidamente per poterci preparare alla registrazione. Mia sorella ed io ci spostavamo nella stanza del pianoforte

Stereo pronto.

Per non rischiare di perdere qualche nota avevamo imparato che bisognava mandare avanti un po’ il nastro e fare in modo che arrivasse sulla pellicola scura.

Fatte le dovute prove di rito eravamo pronte.
C’era l’emozione di assistere a qualcosa di immensamente bello.
Ad apertura del festival la fantastica sigla dell’eurovisione, che mi rendeva fiera, forse mi sentivo parte di qualcosa di importante, di grandioso.
Gli occhi puntati sulla TV.
L’inquadratura puntava sul palco del Teatro Ariston, flash di luci e colori, si muovevano a tempo di musica. Con fatica si intravedevano i tanti elementi d’orchestra, che erano posizionati ai lati della famosa scala che dava i brividi, a chi avrebbe dovuto percorrerla, ma allo stesso tempo fierezza.
Mia sorella ed io eravamo ovviamente affascinate dalle vallette che negli anni si alternavano, non per il personaggio, ma per gli abiti che avevano la fortuna di indossare. Brutte o belle sembravano sempre delle principesse, vestite dagli stilisti che hanno fatto la storia della moda in Italia, Valentino Armani, Versace..
Noi due rimanevamo lì a guardarle, mentre scendevano le scale acclamate ed applaudite con i loro sguardi emozionati e fieri, sognando, un giorno, di poter indossare quei capi meravigliosi.

L‘incanto terminava con l’annuncio della canzone del primo big in gara.

Silenzio che ora comincia”.
La presentazione di Pippo impeccabile.
Applausi e..

Clik. Rec.
La cassetta iniziava a girare con un movimento non precisamente circolare, o almeno quella era la mia impressione quando controllavo che fosse partita la registrazione.

Quel rumore che somigliava ad un fruscio, lento ed incostante.
Il cantante iniziava con le prime parole, noi eravamo attente e curiose.
Poi a bassa voce mia madre: “Sta andando”?
La mia faccia non aveva bisogno di parole, mia madre sarebbe rimasta immortalata nella cassetta dedicata al Festival di Sanremo, bastò uno sguardo tra me e mia sorella, per esplodere in una risata “silenziosa” che non riuscivamo a trattenere, a seguire mia madre, che teneva la mano sulla bocca.
La canzone terminò con gli applausi e
Stop.
Mia madre esplose in una risata che coinvolse tutti.
La nonna che era in cucina con mio padre, non capiva cosa fosse successo, urlava dall’altra parte chiedendo il motivo di tanta confusione, ma nessuna di noi riusciva a darle una spiegazione.
Quel momento di ilarità però si concluse all’ annuncio del nuovo artista in gara.
Pippo…
Silenzio
Rec

Il rito durò per tutta la serata, controllando la cassetta. Non potevamo correre il rischio di dover cambiare lato nel mezzo della canzone.

“Antone è fnnut a lavatrice”. ( Antonella la lavatrice ha terminato).
Anche la nonna era stata immortalata, ufficialmente era diventata una nuova artista del Festival di Sanremo.
La serata scorreva come la pellicola della cassetta. Tra sorrisi e commenti, per qualche artista che aveva osato troppo nell’abbigliamento o con lo stesso brano. Ci divertivamo a fare le nostre classifiche personali, ovviamente totalmente diverse da quelle ufficiali.
Il Festival era un momento di ritrovo, di condivisione, momento per ascoltare della buona musica e degli artisti con la “A” maiuscola.
Gli artisti si dedicavano anima e corpo all’esibizione sul palco. Riuscivamo a percepirne l’emozione ad ogni nota.

Quei Brani poi ci avrebbero accompagnato per tutto l’anno, nelle nostre passeggiate, nei nostri viaggi per le vacanze, ovunque. Qualsiasi momento sarebbe stato buono per premere play al nostro wolkman o al nostro stereo. Avremmo cantato a squarciagola la domenica mattina, cercando di memorizzare tutte le parole. Il nostro percorso di vita sarebbe stato segnato nel tempo da “Terra promessa”, “ Si può dare di più”, “Perdere l’Amore” “E Poi” e “ Luce”…”

In un messaggio mia sorella: “Certo tutto più moderno ora, però che bello quando ancora ci emozionavamo insieme a loro”.

Altri tempi, altra storia, altre emozioni.
Ora del Festival guardo solo la prima puntata se riesco a rimanere sveglia e l’ultima, cercando di capire quali sono i big e quali sono i giovani o gli artisti estratti da Youtube.
Gli anni passano, ma a volte è bello poter dare uno sguardo al passato con il sorriso e ricordare che in una di quelle cassette troverai sempre un pezzo della tua vita.
Raf
Don’t forget to smile

Day off – 2

Stordita tentavo di aprire gli occhi, al mio fianco i miei amici.

Mi sollevai dallo schienale, guardai oltre il vetro del finestrino e mi resi conto di aver dormito per tutto il viaggio. Un sorriso incredulo, un respiro ed iniziò una nuova avventura proprio come allora.

Luca ci fece strada, era l’esperto di quei posti. Scaricati i bagagli ci dirigemmo verso un luogo incantato, “Le camosciare” dove si accedeva tramite un posto chiamato l’anfiteatro. Un insieme di montagne riunite a formare un anfiteatro, un luogo magico e suggestivo. Lungo il percorso nessuno aveva chiesto del cellulare. Finalmente stavamo vivendo il momento, godendo di quella meraviglia intorno a noi.

L’aria era frizzante, i colori quelli dell’inverno. Luca ci accompagnò fin su alla piccola sorgente di una cascata, dopo quasi 1 ora di cammino. Un’ora in cui imparammo a conoscerci. I nostri ricordi da bambini, le emozioni, i figli, i primi innamoramenti, ed insieme apprezzammo quello che la natura ci offriva.

Dei cellulari nemmeno il ricordo.
Unica donna in un gruppo di 4 uomini, mi adeguai al loro modo di fare, assecondando il loro linguaggio, e non meravigliandomi di storie o racconti un po’ …ecco un po’ oltre. Dovevo essere una di loro, non un elemento discordante. Riuscì ad amalgamarmi ,anche incuriosita per il loro modo di pensare talvolta molto vicino al mio.

Dopo un po’, l’appetito iniziò a farsi sentire e ci accomodammo su di un tavolo di legno, in tono con l’ambiente, mangiammo un pezzo di pizza preso al forno del paese. Non sapevamo che ore fossero, non ci importava, quel pezzo di pizza sembrava essere il più buono mangiato fino a quel momento. La condivisione di quel tempo, valeva ogni secondo.

Quella passeggiata era stata rigenerante. Aria pulita, mente sgombra, i sorrisi sui nostri volti distesi.
Nessuna traccia del cellulare.

Rientrati in paese, Luca ci guidò all’interno del borgo vecchio. In quel posto il tempo si era fermato. Tutto era come avevo sognato, come l’avevo vissuto tempo fa, la finestra sul cortile, i fiori , le decorazioni… I miei occhi lucidi di gioia.

La luce fece spazio al buio, quando stanchi rientrammo a casa.

Sul tavolo prelibatezze di ogni genere, ma non sane. Nutella, biscotti, marshmallow ed una bottiglia di spumante con cui brindammo alla nostra amicizia e a quel meraviglioso weekend senza “notifiche”.

La serata continuò, tra sguardi e risate, racconti e giochi “retrò”. Serata esilarante.

Dei cellulari nemmeno l’ombra.
Notte fonda decidemmo che forse era il caso di andare a dormire, l’indomani Luca ci avrebbe fatto visitare altri posti, avremmo vissuto altre emozioni e ci saremmo conosciuti ancor di più.
La notte trascorse serena. Dalla finestra della mia camera da letto, un paesaggio che mi tolse il fiato, dopo molto tempo riuscì a vedere di nuovo milioni di stelle brillanti. La calma, la pace cullarono la mia anima , come il cielo quelle stelle.

Il nostro esperimento funzionò. Per due giorni i cellulari rimasero fuori dalla nostra vita.

Basta così poco per rendersi conto che la vita vera non è quella che trascorri nascondendoti dietro uno schermo del telefono, dietro uno sguardo “fotoshoppato” di una foto riuscita male, dietro un messaggio scritto in codice morse. Basta poco e puoi respirare emozioni che un telefono non ti può dare. Puoi vedere gli occhi lucidi di un tuo amico che si commuove parlando dei suoi figli, le smorfie birichine di Fra, mentre ti racconta aneddoti piccanti della sua vita. Puoi sentire un abbraccio complice, aver le mani libere per sfiorarsi, per immergerle nell’acqua e bere, come facevi da ragazzina, ritrovi il piacere di parlare con le persone anche solo per chiedere un’informazione…

Basta alzare gli occhi, per vedere un mondo oltre quello schermo pieno di notifiche…un sole che sorride…

Basta solo alzare lo sguardo.
Raf
Don’t forget to smile

Day off

I cellulari ci stanno spegnendo il cervello.

Ormai trascorriamo la maggior parte della nostra giornata con gli occhi sullo schermo del nostro telefono intelligente e noi diventiamo stupidi, perdendoci il bello degli occhi degli altri, i sorrisi, l’espressioni…quindi basta.

C’era bisogno di prendere dei provvedimenti seri per disintossicarci da quella smania di guardare facebook, o le svariate chat di whatsapp. Avevamo bisogno di spegnere il cellulare e accendere il cervello, con esso tutti i nostri sensi. Dovevamo partire allontanarci dalle tentazioni. Un mio amico ha una splendida idea:

“Si parte, ma i cellulari saranno consegnati a me, provvederò ad imbustarli e custodirli fino al nostro rientro, che ne dite?”.

Silenzio, di quelli che fanno comunque chiasso. Sguardi dubbiosi, sospiri e poi:

“Perfetto, io sono d’accordo, se vogliamo fare questa cosa va fatta bene così non avremo tentazioni, neanche per vedere l’orario, io ci sto”!

Sabato mattina appuntamento alla metro e poi tutti a fare colazione. Giunse il momento di consegnare il cellulare. Tanto timore e titubanza, ma dopo aver spento il telefono e averlo imbustato e sigillato, tutti in macchina senza ripensamenti.

Il nostro viaggio iniziò, direzione Pescasseroli.
La strada scorreva veloce. Le immagini scivolavano dagli occhi… il tepore all’interno dell’auto si posò sui miei occhi, coccolandomi in un sonno leggero..

“Raffa, Raffa sveglia siamo arrivati”.

 

Indolenzita per aver dormito con la testa appoggiata al finestrino, apro gli occhi a fatica. La voce di mia madre mi incitava ad uscire dalla macchina. Erano tutti fermi eravamo arrivati a Pescasseroli, fermi ad una piazzola di sosta per il campeggio libero. Papi aveva già sganciato la roulotte e tirati giù i piedini per bloccarla.L’aria era fredda, il mio fiato prendeva vita ad ogni parola emessa, era divertente. Iniziammo a scaricare la macchina. La nonna in roulotte iniziò a preparare il suo meraviglioso sugo, il profumo era inconfondibile. Mia sorella ed io, incapaci di stare ferme, emozionate per quella nuova esperienza, iniziammo a girovagare, ad esplorare la zona. I nostri occhi si fermarono su di uno scorcio bellissimo, una distesa di colline imbiancate, la neve non poteva essere più bianca, da lontano qualcosa si mosse dietro ad un albero. Michy ed io ci prendemmo la mano per scappare via, poi apparve un animale meraviglioso, imponente. Non si accorse di noi. E noi facemmo in modo che non se ne accorgesse. Rimanemmo immobili ad osservarlo.Con voce bassa dissi a mia sorella: “Michy guarda che tipo vanitoso, mica le ha solo lui le corna?”. Mi guardò e disse: “Cretina”.

 

Quel meraviglioso animale spaventato da chissà cosa, poi scappò via e noi ritornammo alla roulotte a raccontare quello che avevamo appena visto. Durante il pranzo mio padre ci raccontava il programma della giornata, sembrava tutto molto interessante e noi eravamo emozionate. Visita al parco Nazionale degli Abruzzi, giro in città.

Mia madre ci fece indossare dei maglioni corposi, in effetti il freddo era pungente, e dopo pranzo ci dirigemmo in macchina all’ingresso del parco.
La guida ci spiegò che quello non era uno zoo come pensavamo, ma un luogo dove molti animali venivano curati e poi rimessi in libertà. Che buffe le civette, inquietanti, il loro sguardo ci seguiva in qualsiasi movimento noi facessimo…poi l’area dei lupi.
Molti lupi erano magri, quasi non si reggevano in piedi, i loro sguardi erano tristi. Chiesi alla nostra guida come mai fossero così tristi, con un sorriso mi disse: ”Perché non sono a casa loro, ma devono rimanere qui per essere curati e poi torneranno ad essere felici”.
Un lupo si avvicinò alla rete, mio padre impavido gli accarezzò il muso. Era dolcissimo aveva solo voglia di coccole, ed io lo imitai sebbene mia madre non fosse d’accordo. Amavo quegli esseri, avrei voluto fare di più per loro, ma ero piccola e sotto sorveglianza, pensai: “Quando diventerò grande”.
Il percorso continuò con gli orsi.

Mia sorella ed io eravamo estasiate da tanta maestosità. La natura era pazzesca. La guida ci raccontava dei vecchi aneddoti del miele, degli orsi e di quanto erano birichini.

La guida poi ci salutò regalando a me e a mia sorella un adesivo con il logo del parco nazionale degli Abruzzi, rappresentato da un orso seduto.In macchina dissi per la prima volta alla mia famiglia: “Da grande voglio diventare una veterinaria”.
Nessuno emise un suono, poi mio padre: “Brava, devi studiare tanto”.La macchina intanto andava e dal finestrino fantastici paesaggi innevati, incantevoli. Arrivammo nel borgo di Pescasseroli.Tutto sembrava fatto su misura, sembrava uno di quei borghi raccontato nei libri di favole. Da lontano piccoli vortici di fumo facevano capolino tra un tetto e l’altro, la neve rendeva tutto così magico. Piccole finestre decorate con fiori colorati e finta edera davano vita a quei vialetti suggestivi che profumavano di antico. Il pomeriggio trascorse così in quei vicoletti e al bar con una cioccolata calda. Il sorriso del sole lasciò il posto alla sorridente luna, ed io mi feci coccolare da quella luce lieve, nel rientro al campeggio, mi addormentai stanca, ma felice sulla spalla della nonna…
“Raffa, Raffa siamo arrivati, Daje bella addormentata”.
Una voce interruppe il mio riposo.

To be continued

Raf
Don’t forget to smile

Ottobre 2009

Venerdì 27 gennaio, ore 18.25 finalmente anche questo w.end sta per iniziare, ed un altro giorno  lavorativo si è concluso.

Non mi va di tornare a casa, ho bisogno di tempo per me, di fermarmi dal trambusto di slide per riunioni, richieste da soddisfare, sorrisi da elargire, ancora riunioni, appuntamenti da fissare, telefonate da fare, budget, numeri, pianificazioni annuali…

Stop!
Decido di non tornare a casa, non mi va, ho bisogno di me.

Respiro, sorseggio uno spritz e mi godo il mio tempo, in un bar vicino all’ ufficio. Pieno di gente. Sembra strano ma anche se è relativamente presto per un aperitivo, i tavoli sono tutti pieni. Scelgo una postazione lontana dall’ingresso, l’unico angolo più tranquillo.
Se alzo gli occhi dal mio quaderno ho tutto sotto controllo. Ho una prospettiva completa di ciò che succede.
Alla mia sinistra, tre persone chiacchierano di una start – up e l’uomo che mi siede accanto continua a gesticolare per dare forza al suo pensiero, non si contiene, il mio spritz potrebbe morire sul pavimento.
Alla mia destra l’intero bancone del bar è in movimento, ragazzi che servono bevande, cocktails ed i classici stuzzichini chiamati ”finger food”, che fa tanto internazionale.
In centro un gruppo di adolescenti con gli occhi puntati in un’unica direzione, smartphone.
Un gruppo di adulti seduti in fondo, proprio in direzione del mio sguardo. Anche loro sono appena usciti dall’ufficio. Te ne accorgi subito, dalla cravatta allentata e dal fatto che non indossano più la giacca, ma che invece è poggiata sulla sedia…
Il popolo del venerdì che cerca il proprio spazio, il proprio tempo.

Per fortuna la musica del mio ipod mi isola dalla confusione e dalle chiacchiere. Mi perdo nei miei pensieri, nei ricordi di quando tutto è cominciato. Non so perché… o forse si lo so.
– Ottobre 2009 impaurita suonai alla porta del mio futuro, via Orazio 10. Ad aprirmi una donna molto elegante. Un tailleur con pantalone e giacca dorata. Capelli corti biondi, occhiali, ed un sorriso pieno di energia.  Mi fece accomodare su di un salottino, in attesa di effettuare il colloquio di lavoro, che in ogni caso avrebbe inciso sulla mia vita.

Quel sorriso mi accolse tutte le volte successive, per 7 anni.
Così iniziammo un lungo percorso. La signora bionda mi accompagnò per mano verso il mio futuro.
Avrei dovuto prendere il suo posto, perché era prossima alla tanta attesa pensione. L’impiegata, lasciò ben presto posto alla persona e a quell’anima pura che ho imparato a conoscere. Sei diventata la mia Patty.

Ed ora scrivo di te.

Immagino il tuo viso in questo momento, emozionato e curioso. Tranquilla non dovrai vergognarti di me.
Sei la mia Patty.
Qualche giorno fa mi hai detto: “Raf, anche io voglio la dedica sulla nuova agenda”, sorridendoti ti ho risposto che ci avrei pensato.
Ed eccomi qua.

Non riuscivo a pensare ad un modo migliore per esprimere la gratitudine e la stima e l’affetto profondo che ho per te.

Mi hai accompagnata su una strada a me sconosciuta, insegnandomi tutto il tuo sapere.

Non mi hai mai mollata. La tua pazienza immane, nei confronti di una trentenne timida, inesperta.

Mi hai aperto le tue braccia per sostenermi nei momenti incasinati della mia vita.

Il tuo sguardo dolce, comprensivo, proprio come quello di una madre, mi ha sostenuto in tutte le piccole cose.

Sei sempre stata pronta ad ascoltarmi, hai sempre avuto il consiglio giusto al momento giusto ed hai anche saputo riprendermi quando, inevitabilmente ero pronta a fare qualche cavolata.

Sei sempre stata mia complice discreta, asciugando le mie lacrime.

Voglio dirti grazie, te lo dico così, come il cuore mi suggerisce.

Per avermi fatto sentire a casa nonostante tutto, per aver incentivato ogni mia idea stramba, per la tua amicizia. Per questo blog, che è nato anche grazie a te che mi hai detto:”Raf prova che hai da perdere, se ti piace”.

Mi hai dedicato il tuo tempo nei miei primi racconti, sei tra le mie più forti sostenitrici e lettrici.

Sei semplicemente tu, senza inganno, pulita, sincera, la tua saggezza, la tua esperienza mi hanno indicato il sentiero.

Sei la mia amica, mamma romana.

Grazie Pattina.

Ps: ora stampa tutto e incolla nella nuova agenda, lo so un po’ scomodo però è divertente, come sarà divertente vedere il tuo sorriso lunedì.

Grazie
Raf
Dont’ forget to smile