O’ munaciell (seconda parte)

Margherita Bonito, nata nei primi anni del 900′, ragazzina vivace e serena. I suoi occhi videro cose che noi oggi neanche possiamo immaginare. Sposò il Maresciallo Raimondo Esposito, da cui ebbe 4 figli, Maria, Raffaella (mia nonna), Arturo e Alfredo, che purtroppo morì giovanissimo.

Napoletana “Doc”, Margherita visse una vita abbastanza tranquilla per l’epoca. Adorava occuparsi della sua casa e spesso andava in giro per la città per vederne di nuove. A causa del lavoro del maresciallo, Margherita era costretta a traslocare spesso, da corso Vittorio Emanuele (cuore della città) a Fuorigrotta, quartiere di periferia. Non ebbe mai difficoltà ad ambientarsi e a rendere le sue case accoglienti. Era una donna semplice e di classe, la sua bocca non emetteva mai un suono volgare o sguaiato. Adorava sfoggiare la sua collezione di cappellini, guanti e borsette la domenica, per assistere alla celebrazione della Santa Messa. La sua eleganza era innata.
Purtroppo il destino le portò via il maresciallo e Margherita rimase sola. I tre ragazzi avevano preso ormai la loro strada, avevano costruito le loro famiglie e Margherita sicuramente non voleva essere un peso per nessuno.
Raffaella, sua figlia, le propose di trasferirsi a Castellamare di Stabia, città in cui viveva, Margherita accettò di buon grado e decise di prendere una casa in affitto in centro, vicino alla Cattedrale e alla meravigliosa villa comunale, lì avrebbe trascorso sereni pomeriggi con i nipoti, mangiando gelati deliziosi acquistati alla gelateria ” K2″, passeggiando al tramonto, ammirando il suo bellissimo Golfo di Napoli ed il maestoso Vesuvio.
L’appartamento si trovava in via Sarnelli.
Si accedeva tramite un cancello di ferro battuto, attraversato il quale si arrivava alle scale, in cima c’era la porta principale.
All’ingresso un piccolo disimpegno con una consolle formata da tavolino in legno su cui era appoggiato un antico specchio con la cornice dorata. Lasciato il disimpegno a sinistra un piccolo corridoio e la sala da bagno, seguiva una stanza da letto molto, molto grande arredata con mobili di legno massiccio. Il letto la faceva da padrone al centro della stanza. Il copriletto bianco lavorato a mano, lenzuola ricamate e le federe dei cuscini con le iniziali ” M.S.”, facevano intuire subito la cura e l’attenzione che Margherita avesse per la casa.
Il sole sorrideva attraverso un balcone che dava sulla Cattedrale della città.
A destra del disimpegno due piccole stanze per gli ospiti.
Continuando a percorrere il corridoio si arrivava in una grande stanza da pranzo, arredata con mobili tutti intarsiati, non erano difficili da notare i puttini in rilievo sulle ante.
Attraverso la sala da pranzo si accedeva ad una veranda adibita ad angolo cottura, dove Margherita la domenica preparava i suoi deliziosi pranzetti e il buonissimo caffè per i suoi ospiti.

In quella casa però accadevano delle strane cose.Improvvisamente le luci si spegnevano, le porte che sembravano chiuse a chiave erano invece aperte, cigolii, strani respiri, ma a tutto questo Margherita non badava, era in una casa nuova e non voleva farsi spaventare da comuni rumori di un quartiere nuovo.

Trascorse del tempo da quando Margherita aveva preso possesso della nuova casa, ed era felice aveva il mare, l’aria buona e poi aveva i figli ed i nipoti che le facevano spesso visita.

Una mattina, dopo aver riordinato casa, Margherita era pronta per dirigersi dal droghiere per la spesa. Prima di uscire di casa aveva l’abitudine di controllare la dispensa e stilare una lista dei prodotti che mancavano in modo da essere precisa e non dimenticare nulla. All’apertura delle ante di legno della dispensa, Margherita non poteva credere ai suoi occhi; scatolame, pasta, olio, sale, tutto in quantità elevata.

Ebbe necessità di sedersi e mentre si aiutava appoggiando la mano sul tavolo, si accorse che sotto  il centrino bianco lavorato ad uncinetto, regalo di sua figlia Raffaella, c’erano dei soldi.

Margherita viveva con una modesta pensione e quei soldi sicuramente non le appartenevano, soprattutto non li avrebbe mai lasciati incustoditi.

Ancora seduta, perché inquietata da quello che stava accadendo, appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo e prese la testa fra le mani. Cercava di riunire le idee. Dopo qualche minuto, un grosso respiro, sollevò la testa e liberò lo sguardo che fu attratto da una figura, quasi un’ombra.
Strizzò gli occhi, perché pensò ad un problema di luce ma invece vide un piccolo uomo, un ragazzino che girava attorno al tavolo, con lo sguardo vispo ed un enorme sorriso. Capelli biondi ricci, indossava una camicia bianca, pantaloncini corti, calze che gli arrivavano al polpaccio e mocassini.

Margherita era impietrita, immobile su quella sedia. Gli arti, opponevano resistenza a qualsiasi movimento tentasse di fare e poi una voce:

Uè piccirè buongiorno”, una fragorosa risata accompagnò quelle parole, ” chest è a casa mia, t’agg fatt nu regal, ma tu nun le a ricer a nessun”(questa è casa mia ti ho fatto un regalo ma tu non lo devi dire a nessuno).
Margherita non emise un fiato.
Era stordita, quell’uomo con le sembianze da ragazzino, non sembrava volerle farle del male, ma ovviamente non ne era sicura.

Riprese a respirare lentamente, non tentò di scappare, anche se il suo istinto quasi le urlava di farlo, ma restò e disse:

Ma tu sei vero o sto sognando? Come ti chiami?, chiese nella sua ingenuità.

” Tu m’vir, song o ver, ma sul poc m’ponn verè, a gente c’ ten appaur m’ chiamm o’ munaciell, ma io vogli o ben tuoj, tu si na brava signor”.(tu mi vedi, sono vero, ma solo in pochi mi possono vedere, le persone che hanno paura di me mi chiamano “il monaciello”, ma io voglio il tuo bene, tu sei una brava signora).

Margherita era pallida in volto il battito accelerato strani fischi nelle orecchie.
“Tu m ‘ è vist DEVI MANTENERE IL SECRETO”
( Tu mi hai visto ma  devi mantenere il secreto).

Trascorse qualche giorno, Margherita non parlò con nessuno di quello che le era accaduto, come indicato dal monaciello, ma una domenica successe qualcosa, quel segreto rischiava di non essere più tale.

“Quell’impermeabile color cammello mi calzava a pennello, ho continuato con le mie ricerche, sono diventata un incubo per la mia famiglia, alla ricerca di ricordi e dettagli succulenti”.

Raf
Dont’ forget to smile

O’ munaciell

Un tranquillo sabato, il mio sguardo incuriosito scorreva tra le pagine di Google alla ricerca di qualche notizia carina, qualcosa di interessante. In quest’era dove basta un click per aprire un mondo, pensai che la mia curiosità sarebbe stata soddisfatta proprio tra quelle pagine.

“La repubblica, cinema a Roma, la notte degli oscar, penisola.it, Napoli, Le leggende Napoletane Matilde Serao 1881”.

Il mio sangue guidò la mano sul mouse e incuriosita iniziai a leggere con attenzione.

“O’ Munaciell”, il monaciello, sarebbe un personaggio realmente esistito.

Alzai gli occhi dallo schermo del computer e con lo sguardo perso nel vuoto iniziai a rovistare nella memoria, cercai di aprire qualche cassetto chiuso da tempo. Perché avevo la sensazione di conoscere O’ Munaciello? Continuai a leggere.

“L’origine andrebbe fatta risalire al 1445, durante il Regno di Alfonso d’Aragona, quando vi fu uno dei tanti amori impossibili descritti dalla tradizione poetica e musicale napoletana, tra Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di panni ed il garzone Stefano Mariconda”.

Un classico i due amanti clandestini, ci scappa il morto.

“Un amore contrastato, i due ragazzi ricorrevano ad incontri clandestini. Il giovane garzone pur di incontrare la sua donna, percorreva pericolosi sentieri sui tetti di Napoli. Proprio durante una di queste notti Stefano fu aggredito e buttato nel vuoto”.

Lo sapevo finisce sempre così, ora Caterinella sarà rinchiusa in un convento dove passerà il resto dei suoi giorni.

“La salma del giovane fu inumata, Caterinella in dolce attesa chiese di essere rinchiusa in un convento, dove diede alla luce un bambino piccolo e deforme”.

Certo un po’ scontata come storia, povera Caterinella.

“Le condizioni del neonato non mutarono con la crescita. La madre, sperando in una grazia divina, prese a vestirlo con un sajo da monaco e proprio dal suo abito il popolo napoletano gli attribuì il nomignolo. Il povero fanciullo, destava disgusto e sospetto, i popolo iniziò anche ad attribuirgli poteri soprannaturali, benevoli o malevoli.

Si stava entrando nel vivo della leggenda, questo alimentava la mia curiosità.

“Dopo la morte della madre il povero fanciullo rimase solo a far fronte a quella vita difficile che il destino gli aveva riservato. Il popolo gli attribuiva ogni sorta di avvenimenti sfavorevoli, dalle malattie alle nuove tasse. Il monaciello poi scomparve misteriosamente, la voce popolare narra che fosse stato portato via dal diavolo”.

Certo più che al diavolo io avrei pensato ad altro, che il povero fanciullo fosse stanco di quella vita e che fosse andato via da quella città che non aveva saputo capirlo.

“Qualche tempo dopo furono ritrovate delle ossa attribuibili al fanciullo nano, si paventò l’ipotesi che i parenti Frezza avessero deciso di assassinarlo. Dopo la morte del fanciullo, si narra che il popolo napoletano continuò a vederlo nei luoghi più disparati dei quartieri bassi, in cui il fanciullo cercava vendetta, per questo gli furono attribuiti tutti gli eventi sfavorevoli della vita quotidiana. Dal quel momento in poi il monaciello divenne parte integrante della vita del popolo napoletano”.

Dopo aver letto la leggenda, la sensazione di essere già a conoscenza di una qualche storia che riguardasse il monaciello non sparì, ansi si fece più radicata. Sentivo mia quella leggenda e non solo per il fatto che fosse napoletana, ma come se in qualche modo l’avessi vissuta.

Allora mi dissi:” Raf dove non arrivano i tuoi ricordi, sicuramente arrivano quelli della tua famiglia”.

Pensai di chiamare zia Margherita, una delle sorelle di mia madre, che di cose ne ha vissute tante e tante ne ha da raccontare.

Zia Marga era felice di sentirmi, dopo le domande di rito:” Come stai? Stai Attenta? Hai mangiato? Mi raccomando mangia che ti servono energie”, proprio sorella di mia madre, era il mio turno.
“Zia ma tu hai mai sentito parlare del Monaciello?”

“ Eh sapessi tanto tempo fa, nonna Margherita quante ne ha passate, O’ Monaciell stev a casa Soij”.

“O’Monaciello era a casa di nonna Margherita? Quindi esiste? La leggenda del fanciullo deforme è vera? Noooo! E’ necessario un approfondimento.

Trattenni zia Marga al telefono per una decina di minuti, facendole domande e ricevendo risposte molto strane ma estremamente vere.

Quella storia iniziava un po’ a spaventarmi.

Idealmente indossai il soprabito color cammello, nella mano destra l’immancabile lente, pipa tra le labbra e iniziai le miei indagini.

Chi era nonna Margherita?To be continued

Raf
Don’t forget to smile

Il letto a castello

Un numero di cellulare salvato come ” Sora”.

Una piccola stanza, una finestra, un letto a castello complice discreto. La nostra vita condivisa si è svolta lì:

Tu “al primo piano”, io sotto.

Intere giornate rivissute in quel letto. Sorrisi, catastrofi, primi amori, lacrime segrete, brutti voti.

Il nostro spazio, il nostro tempo, la nostra oasi sicura.

Quel letto ci ha sopportate durante le nostre notti insonni, quando cantavamo tutte le sigle dei nostri cartoni animati preferiti, quando inventavamo storie per le nostre Barbie, quando sognavamo il nostro principe azzurro, cosa avremmo fatto nell’anno “2000” quanti anni avremmo avuto, come saremmo invecchiate.


Quel letto ha visto scambiarci, slip, vestiti e scarpe, ci ha viste decorare i nostri armadi con i poster giganti dei più assurdi gruppi emergenti del momento, dopo poco sostituiti dall’elenco dei ragazzi che ci avevano rubato il cuore.

Quel letto è stato giudice parziale ai nostri litigi e amico dei nostri abbracci, complice dei nostri sorrisi quando si sentiva il vicino russare, quando prendevamo in giro le persone che ci dicevano:

“Ma siete gemelle o solo sorelle? Però avete anche la stessa voce”.

E poi una notte:

“Michy sei pronta domani è il grande giorno”.

“Bo Ra Speriamo bene”.

Era arrivato il momento di lasciare il letto a castello, di lasciare quella vita per iniziarne una diversa, meravigliosa, concreta.

Ora mi piace guardare tua figlia che come te si arrampica “al primo piano” e si sdraia su quel letto per guardare le stelline fluorescenti attaccate al soffitto, proprio come facevi tu.

Oggi è il tuo compleanno, qualcuno direbbe i tuoi primi 40 anni…

Voglio ringraziarti sorella per avermi spianato la strada, per aver lottato per la nostra indipendenza in famiglia, per aver lottato per rientrare più tardi il sabato sera, per quello schiaffo di quella sera d’estate che mi ha aperto gli occhi.

Ho sempre trovato in te una confidente e complice perfetta.

Sei la consulente di immagine più spietata al mondo. Non lasci possibilità di vita ai miei outfit, o ai miei nuovi tagli di capelli, se non ti piacciono, lo esprimi senza scrupoli ed in maniera anche colorita, così da non lasciare spazio a dubbi.

Sei la mia prima sostenitrice per tutte le cazzate a cui voglio dare vita, come questo blog.

I tuoi applausi hanno significato e significheranno molto di più di quelli di una qualsiasi folla, perché gli altri vedono soltanto il risultato, mentre tu vedi tutto ciò che ci ha portate fino a lì.

Le nostre strade si sono divise, ma non le nostre vite.

Tu quella razionale,

io la sognatrice.

Tu impulsiva,

io riflessiva e mediatrice.

Ci compensiamo.

Non ci sarà mai un me senza te.

Mia sorella sempre.

Raf
Dont’ forget to smile

Rosso pomodoro

Il rumore del metallo, l’acqua che bolliva, il calore del fuoco, i pomodori, il sole, i sorrisi.

Ferma ai giardini a leggere “ IQ84”, l’omino lavorava armato di cuffie arancioni e tosaerba. Era lento nei suoi movimenti . Lo sforzo piegava i muscoli che si contraevano durante la spinta in avanti della macchina e tra le lame in basso fuoriuscivano piccoli ciuffi di erba. Avete presente il profumo dell’erba? Ha un odore particolare, ma quando viene tagliata l’odore si accentua, è ancora più forte ed entra quasi di prepotenza nelle narici, diffondendosi nel sangue lasciando un segno nella memoria, indelebile. Quel profumo risvegliò in me vecchie sensazioni.

Il mio sguardo fisso sull’omino a lavoro.Una splendida giornata il sole riempiva il cielo, la mente mi guidò su una mano destra, il pollice e l’indice tenevano un rosso pomodoro all’estremità, che a causa di una forte pressione esplose.
Era la stagione del raccolto di pomodori ,” i San Marzano” , quelli che il mondo ci invidiava. Casa Anastasio fremeva di lavoro. Il giardino pullulava di gente e di ragazzini.

Mio padre dopo aver acquistato dal contadino qualche quintale di pomodori dislocati in tutto il giardino nelle varie cassette di plastica colorate, si dedicava al lavaggio delle bottiglie, con un fantastico scovolo rosso ed al lavaggio dei pomodori.

Una bagnarola gigante blu, che solitamente usavo per fare il bagno caldo in inverno, veniva usata come recipiente per riporre i pomodori da lavare. Una pompa che donava acqua fresca senza sosta era appoggiata all’interno. Mio padre chinato sulla bagnarola, con una mano appoggiata sul manico per reggersi , l’altra invece era immersa intenta a girare e rigirare i pomodori in modo che potessero essere lavati bene. Era possente tutti i muscoli delle braccia e della schiena erano a lavoro, il movimento del braccio destro comportava delle contrazioni più evidenti della fatica effettuata. Era bello vederlo all’opera. Spesso volevo rubargli il posto, adoravo stare nell’acqua.

Dopo questa lunga operazione i pomodori andavano riposti nelle cassette e a gruppi messi in uno scolapasta affinché l’acqua potesse scivolare via.

Tutti in cerchio, la nonna come guida, si iniziava, quasi un rito.
 Il pomodoro presentava sempre “ o streppon”  ( il raspo, la parte che congiunge il frutto alla pianta), che andava tolto.
Estirpato, emanava quell’odore, l’odore dell’erba tagliata.

“ Ovvi , pij a pummarol e po le a premmr ( vedi prendi il pomodoro e poi lo devi premere) o puliz e o miett ca dint ( lo pulisci e lo metti qui dentro)”

Il pollice e l’indice tenevano il pomodoro alle due estremità che con una leggera pressione causavano un’apertura al centro, attraverso cui i semini contenuti all’interno venivano espulsi.

I pomodori avevano quel profumo, di fresco, di buono.

Eravamo una catena perfetta, mia sorella ed io ci divertivamo a pressare i pomodori. Fare uscire i semini diventava un momento goliardico, perché casualmente invece di finire nel recipiente, si spiaccicavano sugli occhialoni viola della nonna, che rideva e ci sgridava.

La nonna e zia Marga erano addette al riempimento, la parte quasi più importante. Bisognava mettere i pomodori nelle bottiglie e  schiacciarli in modo da togliere l’aria all’interno, lo facevano con tanta dimestichezza che sembrava lo facessero da sempre. La mano chiusa a pugno, l’indice ed il medio un po’ più sporgenti, pigiavano i pomodori fino ad appiattirli, inserendo poi una foglia di basilico fresco che avevano preparato precedentemente.

Si andava avanti fino a sera, ma l’aria tiepida e l’abbraccio del tramonto rendevano tutto leggero per nulla faticoso.

Finito di riempire le bottiglie, chiuse con un tappo ed un aggeggio simile ad un cavatappi, mio padre preparava il bidone.

Il bidone era un fusto di metallo a forma cilindrica, che papà da ragazzino affittava con 100 lire per  tutto il tempo che serviva, nel nostro caso invece, era stato preso in prestito dai cantieri navali. Con molta cura, in un angolo del giardino, sistemava dei mattoni formando un quadrato ma con il lato centrale aperto, per poter inserire la legna, come una brace. Il bidone andava posto su quella brace.

Iniziava così il passaggio di un centinaio di bottiglie da una mano all’altra fino ad arrivare a mio padre , che arrampicato come una scimmia inseriva le bottiglie nel bidone facendo attenzione a non spaccarle.

“ Papi perché metti la stoffa sulle bottiglie?”

“Perché quando l’acqua bolle può spostare le bottiglie e si possono rompere invec accussì stann chiu comod” ( invece così non urtano tra loro). Poi ci mettiamo l’acqua fino a ncopp e mettim o cupierc.

Prima di chiudere il coperchio però si usava mettere una patata per capire il livello di cottura.

Era il momento di accendere la brace, la legna era al suo posto, un po’ di carbonella e qualche foglio di giornale imbevuto di alchool, ed era fatta, a fuoco acceso era inevitabile l’applauso e qualche urla di approvazione.

Il buio calava lentamente, la luce del fuoco e di qualche lampada accesa in giardino creavano un’atmosfera di totale relax, anche l’ora di cena tardava ad arrivare e spesso si mangiava la pizza tutti insieme all’aperto, altre volte ci si arrangiava con quello che c’èra in casa, spesso pane con formaggio e qualche insaccato in attesa della fine del lavoro. Ci sedevamo dove capitava per mangiare, preferivo sedere a terra o sulle scale di ingresso a piedi rigorosamente scalzi.
Un momento di ritrovo tutto nostro. Si chiacchierava, si rideva, si giocava, fino a quando il coperchio del bidone non catturava la nostra attenzione facendo strani rumori sollevato dall’acqua in ebollizione. Il fuoco andava diminuito e reso più debole, ne approfittavamo per cuocere delle verdure o patate al cartoccio buonissime. Le nostre conserve erano pronte. Non vedevo l’ora che la nonna ci preparasse un sugo speciale. Il fuoco era quasi spento.

Un rumore assordante di un’ambulanza distolse il mio sguardo dall’omino, avevo le scarpe, tra le mani il mio libro. Mi ritrovai sulla panchina… un flashback ma questa volta non un film, ma la mia vita.
Respirai ancora una volta quel profumo.

Ringraziai l’omino  che tagliava l’erba che con faccia stupita mi disse: ” Prego!” .
Mi allontanai.

l sole mi aveva regalato un nuovo sorriso.
Raf
Dont’ forget to smile

One day

Due corpi  si riconoscono e si fondono in un complesso agglomerato chimico, generando  la Vita.


Novembre 2007, una domenica, ora di pranzo, ero agitata, un’anima in pena in giro per casa poi una telefonata:

“Indovina dove stiamo andando”, porca vacca, un alert iniziò a lampeggiare nella mia testa, non esitai:

“all’ospedale” risposi.

Mia sorella aveva rotto le acque e mia madre, con la voce terrorizzata, si permetteva anche di fare gli indovinelli, mi chiesi come riuscisse a guidare, ma poi la risposta venne da se…. È mamma!

Presa dallo scompiglio cercai di razionalizzare e fare le cose per ordine.

Mi serviva la macchina, una borsa.

L’autostrada Roma – Napoli non era mai stata così lunga.

Durante il tragitto, un flashback,  immagini e momenti di quando tutto iniziò con un messaggio: “Diventerai zia!”

Il tempo era volato, tra il riposo costretto a causa di qualche incertezza del piccolo scricciolo, tra le chiacchiere al pancione, le canzoncine stonate,  il toto nome, immaginare cosa sarebbe diventata da grande, cosa io avrei potuto insegnarle e cosa avrei voluto per lei, arrivai al casello autostradale di Napoli.

In continuo contatto con mia madre: ”La piccola di venir fuori non ne vuole sentir parlare”

Pensai :”mi piace questa ragazzina aspetta la zia”.
Arrivai all’ospedale trafelata e con il cuore in gola. Non era orario di visite, mi fecero aspettare fuori.

Possibile? Avevo guidato due ore e mezza  con l’acceleratore a manetta, il traffico di Napoli, mi ero quasi venduta al parcheggiatore, per sentirmi dire: ”Non si può entrare”.

Cercai di afferrare il mio buon senso lasciato da qualche parte, respirai e mi attaccai alla porta d’ingresso, sbirciando per intercettare qualche movimento, e apparve come una madonna, mia sorella in tenuta comoda (camicia da notte orrenda, pure trasparente) in giro per i corridoi, apparentemente  fresca come una rosa, verificai che avesse ancora il pancione, eh si ,era ancora al suo posto.

Dopo qualche ora di attesa finalmente riuscii ad entrare.

La domenica trascorse così.

Per tutta la notte  mi allontanai dal letto di mia sorella solo per verificare che mia madre non avesse avuto un infarto  per la tensione e che mio cognato stesse bene, entrambi avevano gli occhi tendenti allo svenimento per il sonno.

Mia sorella  poverina era stremata, le contrazioni sempre più frequenti, il suo viso si contraeva dal dolore e lo caricava tutto sulla stretta della mia mano, ma non emetteva un fiato. Di tanto in tanto arrivava l’ostetrica chiedendole come stesse andando, ma che cazzo di domanda è? Sta esplodendo non vedi cretina… questo frullava nella mia mente.

Con mano decisa l’ostetrica  alzò la camicia da notte ed infilò due dita  nella vagina, compiendo un movimento rotatorio , prima in un senso poi nell’altro, la sensazione che provai… brividi sulla pelle, dolori trasmessi al mio corpo e l’istinto di voler tirar via quella mano perché vedevo la sofferenza negli occhi di mia sorella. Quella manovra andava fatta affinchè l’utero si potesse preparare e raggiungere la dilatazione giusta.

La notte passò lenta.

Credo che dopo una notte  trascorsa in ospedale si possano scrivere storie e storie, commedie ed horror.  Alcune partorienti urlavano dal dolore in un modo non descrivibile,  Dario Argento avrebbe potuto prendere spunto per  “Profondo Rosso 2 l’Abominio”, altre correvano al bagno tenendosi la pancia, per paura di perderla,  strofinando le ciabatte, come se fossero pattine, dandosi lo slancio prima con un piede e poi con un altro, una nuova disciplina legata allo “short track”.

La notte trascorse e pure metà giornata. Purtroppo a causa di impegni di lavoro, lasciai mia sorella e l’ospedale, rientrai a Roma senza aver visto mia nipote, che nacque nel primo pomeriggio del 12 novembre.

La mia gioia fu immensa, quanto il dispiacere di non aver potuto filmare lo svenimento di mia madre e  scattare una foto alla faccia  di mio cognato alla vista della piccola, rido al solo ricordo.

Ora quello scricciolo compie 8 anni, la mia Pati, così mi diverto a chiamarla.

Ora è una donnina alle prese con la conoscenza, con le nuove amicizie, con le prime passioni, con le prime delusioni, è facile interagire con lei, con la sua fantasia, è un continuo stimolo per me.

Vorrei che tu sia fiera di quello che sei e quello che diventerai.

Vorrei che tu sia curiosa, la vita è da scoprire.

Vorrei che tu  imparassi a rialzarti dopo una brutta caduta e continuassi ad andare avanti.

Vorrei che le tue lacrime fossero linfa per un  giardino in fiore.

Vorrei che tu imparassi la gentilezza e che ne sia promotrice.

Vorrei che tu sia leale per un  mondo che non sa esserlo.

Vorrei che tu imparassi ad apprezzare il necessario e a disprezzare il superfluo.

Vorrei che i tuoi sogni fossero più grandi delle tue paure ed i tuoi gesti più rumorosi di tante parole.

Vorrei che non smettessi mai di stupirti e che il tuo cuore rimanga sempre libero.

Vorrei vedere il tuo sorriso illuminare sempre il sole.

Auguri piccola!

Non dimenticare di sorridere Mai!

Don’t forget to smile

Raf

La Signora

Benzina, ferro, sale, ecco gli odori che riempivano le mie narici quel giorno.
Quella fu la mia prima volta, quella che ti rimane negli occhi, nelle orecchie, nel sangue.
Angelo Antonio Anastasio, questo il nome di un giovane saldatore, operaio della Fincantieri, che passava le giornate nei doppi fondi, assemblava pezzi di metallo e dava loro una forma, ne faceva qualcosa di buono:

“qua si fanno le navi, che vanno per i mari grossi” mi disse.

Il sorriso del sole, illuminava la giornata, come spesso nella mia terra.

Angelo Antonio ci attendeva all’ingresso, indossava la tuta da lavoro, talmente usurata che non era facile distinguerne il colore, e quelle scarpe orrende, io le chiamavo “carri armati”. Il viso un po’ provato, stanco, le mani rugose, qua e la sporche di grasso, non mi impedivano di abbracciarlo, ero orgogliosa del mio papà.

Ci condusse all’interno della fabbrica di navi, sicuro e deciso, ovviamente sapeva bene dove andare. Ogni passo era un saluto ad un collega,

“ papi è proprio famoso“ pensai.

Di tanto intanto qualche omone gridava qualcosa di incomprensibile, in lontananza rumori graffianti come il gesso strofinato sulla lavagna, la forchetta strusciata nel piatto di porcellana, ma con effetto triplicato e amplificato.
L’odore di benzina mescolato al metallo era sempre più forte.

“We Peppì e port a fa nu gir” (Peppino le porto a fare un giro).

I miei occhi impressionati da quella immensità.

“Accort o’ scalin!”

Imboccammo una porta per gli gnomi, eh si, era veramente piccola.

Papà ci fece strada attraverso dei cunicoli illuminati da luci rosse, lungo tutto il percorso i nostri passi furono accompagnati dal rumore delle scarpe sul metallo. Lunghi corridoi, scale, cabine, scale a chiocciola, oblò e la sala macchine, pazzesca… Non ricordo quanta gente ci fosse, ma mi sembrò di vedere una compagnia di danzatori, che a tempo di musica, quella scandita da ticchettii e ventole in accelerazione, danzavano la loro coreografia perfettamente studiata.

Riprendemmo un corridoio e una nuova scala a chiocciola, mi sentii come Alice che usciva dalla tana del bianconiglio. Un sferzata di vento mi diede il benvenuto e poi… Wow!
Rimasi senza fiato.
Eravamo sulla prua.

“Là poi ci mettono i container per trasportare la merce”.

Non sentivo. Quello che vidi lassù annullò tutti gli altri sensi… ero senza parole.

Il porto, il mio amato Vesuvio, il mare senza fine, giu’ la folla in attesa.
Estasiata, in compagnia della brezza marina, iniziai a scorrazzare avanti e indietro, non volevo perdermi nulla, ma fui richiamata all’ordine, era tardi bisognava andare.
Iniziò la cerimonia. Un uomo in cravatta prese posizione davanti ad un microfono sorretto da un’asta, e parlò, parlò… non so di cosa… poi un applauso mi distolse dalle mie fantasie sulla “Signora”.
La folla girò la testa in un’unica direzione, gli occhi fissi sulla bottiglia di champagne legata ad un filo, che con velocità elevata impattò sulla parte metallica…. e il contenuto della bottiglia si sparse ovunque…
il boato della folla, gli applausi, la gioia…
Immediatamente si susseguirono operai che correvano a destra e a manca, molti sistemati ai lati della “Signora”.
Voci che incitavano, martelli sul legno, ritmo sostenuto, graffi di ferro, …ancora e ancora…
La signora iniziò a muoversi, e lentamente a scivolare verso quello che era il suo destino… solcare i “mari grossi”.
Il mare, dapprima non era felice di accoglierla, ma la maestosità della “Signora” si impose, suo malgrado il mare cedette, si divise e quindi indispettito creò onde che si diffusero fin sulla costa.
“La Signora” fiera e calma si adagiò e si fermò.
Il sudore, la fatica, i sorrisi e gli abbracci degli operai emozionarono tutti.
Angelo Antonio, era fiero, felice, soddisfatto:

“E pur chest e fatt!”.

Raf
Don’t forget to smile

LEI…ricordi passati di un vivo presente.

Tutte le domeniche anche le più piovose, il sorriso del sole attraversava la finestra, illuminando quell’ angolo della stanza.
Una sedia di legno, con la seduta in paglia tutta intrecciata, rendeva quell’angolo speciale.
Era diventato un rito, il mio rito preferito, la condivisione di attimi solo nostri.In lontananza note napoletane entravano nelle mie orecchie come zanzare assetate di sangue, il mio vicino innamorato dei neomelodici, aveva l’usanza di cantare passando da una nota stonata all’altra…..
Era domenica.
La domenica era sempre una festa di colori e di cibo, tutti in movimento in casa, come piccole formichine indaffarate ognuna con il proprio compito.
Il richiamo della signora VuèVuè, ti regalava il sorriso del giorno.
(Nunziatina, in arte la signora VuèVuè perché passava tutte le domeniche annunciando il suo arrivo al grido: “VuèVuè quant’ cos’ belle VuèVuè”, cercando di vendere qualche vestito del suo fagotto).
Ma La regina suprema era Lei.
La sua chioma grigia, le sue forme morbide.
Le sue gambe reggevano il peso della storia di nove nuove vite. Le sue mani, che in passato avevano cucito, ora affaticate dal tempo, compivano un rituale conosciuto ed esperto.

 

La cucchiarella di legno prima toccava il fondo e poi il bordo della pentola che accoglieva il pomodoro fresco.
Mentre Lei mescolava con cura, le polpette di carne appoggiate nella pirofila bianca attendevano di essere immerse nella padella, dove l’olio iniziava a fare sentire la sua voce.

Tutto avveniva con estrema precisione, non studiata.
Il pane acquistato fresco dal signor Pio, veniva tirato fuori dal sacchetto e tagliato a fette uguali, il coltello come un’onda del mare, le briciole… le sue gocce.
Tutto sembrava scandito da un tempo sconosciuto, da una musica mai scritta, ma udibile in quegli attimi.
Ed era così che mi svegliavo, inebriata dal profumo del basilico e amore.
La mia colazione? “cuzzetiello” e sugo (la parte iniziale o finale del pane inzuppato nel sugo).
Una droga pura.
Un sapore che arrivava in bocca, diffondendosi sul palato, alla gola e giu’… permanente. Impossibile fermarsi, se non con un sonoro: “E bast mo, jà vatt a lava’ a facc!” (basta ora vai a lavarti il viso).
Ma la domenica pensare di lavarsi… proprio no.
La mia domenica era fatta per stare in pigiama, andare scalza in giro per casa, aspettando che mia madre mi dicesse urlando : “Raffaaa metti le ciabatteeee” non l’ho mai ascoltata.
Era sempre tutto pronto, troppo presto.

Lei in attesa del pranzo, si accomodava sulla sediolina di legno, nell’angolo della stanza, vicino alla finestra, dall’altra parte appeso al muro c’era uno specchio double face, su di un lato rifletteva il tuo viso umano, dall’altra parte un mostro con un attacco di allergia.
L’attesa andava presa di petto.
Mentre Lei iniziava a tirarsi il viso deformandolo, la sua faccia acquisiva espressioni buffe.
Io: “Che fai?”
Lei: “M’ aggia livà sti rui pil.”
Io: “ah la barbetta.”
Lei: “E ch vuo’ fa.”
Io: “Posso fare io?”
Lei: “E tiè!”
A cavalcioni su di lei, con gli occhi ancora pieni di granelli di lacrime lasciati da Morfeo, mentre la mano destra reggeva la pinzetta, la sinistra era intenta a stendere la pelle con il pollice e l’indice.
Ero pronta!
Come un chirurgo alla sua prima operazione importante, ero lenta ed accurata e al primo pelo estirpato dal bulbo dissi in cerca di approvazione:
“Guarda!”
“Brav a nonn”.
L’operazione continuò per i 10 minuti successivi tra risate e i suoi mugolii doloranti.
Il tempo si fermava.
Gli attimi erano diventati infiniti, la nostra complicità, le nostre risate… Tu.
Tutte le domeniche il rito si ripeteva, ne ricordo ogni istante.
Qualcuno ha detto: “Le persone muoiono solo se il tuo cuore le dimentica.”
Questo mio secondo post lo dedico a Lei.
Ha riempito di sole la mia infanzia.
Mi ha regalato sorrisi che ho imparato a donare.

Don’t forget to smile
Raf