Radio Freccia

Appena maggiorenne,
un filo sottile mi legava ancora a quello stato adolescenziale, che tagliato mi avrebbe fatto diventare una donna e nell’attesa la musica ricopriva, come ancora oggi, un ruolo importante nella mia vita accompagnandone momenti belli e meno belli, scandendone rigorosamente gli attimi.
In quegli anni Luciano Ligabue “condizionava la mia anima”, avevo vissuto al massimo in “certe notti”e avevo conosciuto Mario, che per me ed i miei amici  non aveva mai chiuso il suo Bar.
Luciano era lì, quando mi sentivo una “piccola stella senza cielo”, in balia dell’ignoto futuro sostenendomi e dandomi la forza di non spegnere la mia luce.
Era il 1998, la vita seguiva il suo corso, scelte, cambiamenti, inadeguatezza, ribellione ed una folle necessità di credere di poter fare tutto ciò che si desiderava.
Volevo credere.
Come il protagonista del film “Radio Freccia”, Ivan Benassi, iniziai ad avere la necessità di non credere a tutto ciò che mi dicevano, ma a tutto ciò in cui volevo.
Proprio in quei giorni, dopo aver visto il film, Antonio ed io ci incontrammo per bere una birra al Maracanà, un pub che da tempo era il nostro punto di ritrovo, dopo un pò di chiacchiere, risate e temi che alludevano ai massimi sistemi, l’uomo ed il fuoco, l’invenzione della ruota, cogito ergo sum, mi consegnò un pezzetto di carta, almeno quello che mi era sembrato a prima vista.
Era un biglietto ripiegato più volte su se stesso, su di un lato presentava una scritta in verde,

” x Raffa”.

I nostri sguardi si incrociarono, i nostri visi non celavano la curiosità e attesa di reazione.
Iniziai a dispiegare il foglio a quadretti, che man mano prendeva la sua forma naturale. Le prime macchie di inchiostro, questa volta blu, iniziavano a trasparire dalla carta.
Era scritto a mano, con quella grafia piccola e precisa che avrei riconosciuto tra mille altre.
In alto a destra una data” Ottobre 1998 ore 3.48 AM”. Antonio sapeva perfettamente quanto amassi quei piccoli gesti più di qualsiasi altra cosa, a prescindere dal contenuto, lo ritenevo un gesto di grande attenzione, di calore.
Un altro sguardo sul suo viso, l’angolo destro delle bocca era tirato un pò verso l’alto, come se si stesse accingendo ad un sorriso.
Iniziai a leggere.
I miei occhi scorrevano tra quelle righe, assaporando ogni lettera, ogni parola, ogni pausa.
Quelle parole nella mia mente risuonavano come dolci note, mescolate a toni di rock progressive.
Terminai la lettura dopo qualche minuto.
La riflessione.
Il silenzio.
Un sospiro ed uno sguardo di gratitudine a quel sorriso non più nascosto.
Sono trascorsi tanti anni, 18, quel biglietto è riposto gelosamente nel mio portafoglio, un pò consumato dal tempo, qualche parola sbiadita…ma nulla potrà cambiarne il contenuto.
Ispirato dal film, Antonio mi aveva raccontato, scrivendole su quel biglietto, le cose in cui voleva credere, non importava se avessero senso o meno, bisognava credere in quel che si voleva…..

” Ottobre 1998 ore 3.48AM”

 Adattato per Noi

“Credo nei sogni, negli urli in testa, nella puzza di benzina, nella coca-cola, nella sincerità, nelle chiavi dimenticate a casa, in quelle che cerchi continuamente nella borsa.                                                                                                                                 Credo nelle cose provate e mai dette, nelle cose dette e mai provate, nei bordi dei cuscini, nei vecchi jeans 501, nella sveglia che suona al mattino, nelle scelte sbagliate, nelle strade percorse, nelle stelle cadenti, nelle apparenze, nei tacchi a spillo, nel mare, nei Simpson.
Credo nei Vampiri.
Credo nelle fottutissime illusioni, nei sogni nel cassetto, nell’acqua che sa di cloro. Credo nei brividi di due mignoli che si intrecciano, nel rispetto, nei falsi sorrisi, in Dylan Dog, nel pavimento fresco d’estate.
Credo nell’amicizia di mia sorella, quella vera pura, senza condizioni, ne competizione. Credo nel tramonto estivo, nella pioggia che nasconde le lacrime, negli occhi di mio padre, nella bellezza, nell’abbraccio di un bambino.Credo nelle cose strane, nell’affanno di un respiro ricco d’amore, credo in te, credo in me, credo nel futuro, credo nella passione,

Credo nell’Amore.”
Raf
Dont’ forget to smile

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Nuovo Anno

Il nuovo anno, una nuova agenda, una nuova penna.

Con la canzone di Lucio Dalla “l’anno che verrà”, che per me è ormai inno ufficiale per accogliere i nuovi 365 giorni, ecco gli oggetti che mi ricordano che il nuovo anno è arrivato. Oggetti normali a vedersi, utensili da lavoro (è così che mi piace definirli), immobili, senza vita…

Almeno era quello che credevo…  ma l’apparenza inganna. Quei due oggetti dediti a segnare impegni, orari, incassi, budget, numeri di telefono, a scaricare la tensione colorando le pagine immacolate con kg e kg di inchiostro, allo scoccare delle ore 00.00 del 31/12  si trasformano, si animano … prendono vita…

Come è possibile?

Ebbene quei piccoli oggetti  diventano una costante della mia giornata,  un’ossessione, ovunque volge il mio sguardo, sono lì a fissarmi in attesa, sul comodino accanto al letto , sulla scrivania, sul tavolo della cucina, sul pianoforte, in terrazza durante un minuto di relax, perfino in bagno…diventano il mio incubo. Quando rientravo in casa mi chiedevo cosa avessero fatto in  mia assenza se avessero fatto baldoria o se avessero soltanto fatto nuove conoscenze con la nuova “bic” o con il nuovo calendario. I mostri nella mia mente mi conducevano a pensieri folli…
Il 6 gennaio pronta per ritornare a Roma, non perché io avessi finito il turno da Befana, ma semplicemente perché terminate le vacanze si ritorna alla quotidianità dell’ufficio, dai meandri piu’ oscuri di casa, un urlo disperato di mia madre raggiunge le mie orecchie e il suo viso riempie i miei occhi, sembra tanto quello del gatto con gli Stivali del film” Shrek”, gli occhioni di chi ha capito che un tizio di una delle tante serie televisive è morto a causa della sua stessa madre, ma resusciterà presto… e l’agenda aperta nella pagina di copertina…: “ma che, nun me scritt a dedic e bon augurji”.

Non ho scritto la dedica?! Non Ho scritto la dedica di buon auspicio! Ecco perché agenda e penna mi seguono.

Sono anni che mia madre segue questo rito. L’agenda spesso è stata trasportata anche a Roma…nulla poteva impedirle di raggiungermi. Dovevo necessariamente inaugurare la prima pagina  della sua agenda con una dedica perché di buon auspicio.

Questo nuovo anno cara mamma ti stupirò, non avrai bisogno di inseguirmi, ecco la tua dedica per la tua nuova agenda.

“Arriva un nuovo anno straniero, ancora, ma non per molto.

Tutto inizia sempre per trasformarsi in qualcosa di diverso, di più grande, di più maestoso.

Tu hai la capacità di creare, di trasformare tutto a tuo piacimento.

Hai la forza propria solo ad una madre.

Hai l’energia della tua terra nel tuo sangue.

Il sole accompagna le tue giornate, ti farà da guida sempre.

A volte potresti essere stanca,  sfinita, ma l’abbraccio dei tuoi nipoti ti darà nuovo vigore.

Non rammaricarti di non aver potuto fare di più, lo hai già fatto.

Non dimenticare mai da dove sei partita e dove sei ora grazie alla sola tua tenacia.

Non rimproverarti di avere due figlie un po’ stronze, due figlie diverse, una dedita alla famiglia, l’altra in balia dei sogni.

Le hai cresciute bene, la vita non è sempre così educata, hai fatto un buon lavoro, faticoso , intenso ma ottimo lavoro.

Nonostante tutto non hai mai mollato e so che non lo farai mai.

Il tuo animo generoso, indistruttibile quanto fragile sarà il tuo punto di forza.

Ti auguro di essere più serena, anche la tua gastrite ne sarà felice.

Non ti chiederò di fare tanti soldi, come in passato, quelli che abbiamo per fortuna ci bastano.

Ti auguro per questo nuovo anno di pensare un po’ più a te, di darti più tempo, più spazio, il tempo perso non ritorna.

Ti auguro di sentirti amata, anche se spesso non ti sarà dimostrato, ma il tuo cuore lo saprà sempre.

Ti auguro di essere sempre orgogliosa di ciò che sei.

Ti auguro di rientrare la sera orgogliosa del tuo operato, e di poggiare leggera la testa sul cuscino.

Ti auguro di non smettere mai di sorridere!

Buon lavoro”.

Raf

o.e.p.s
Don’t forget to smile

ps. In agenda segna che il sabato non lavoro,  Non Chiamarmi all’alba!
ps: ora stampa e incolla almeno non dovrai inseguirmi per tutta casa.

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Due anime – Una storia. (fine)


Raccolgo la forza rimasta e mi dirigo verso l’altro fratello coinvolto.

La scena che mi trovo davanti è terrificante.

Purtroppo non c’è più nulla da fare, solo recuperare il corpo senza vita con rispetto e dignità.

Forse il compito più difficile.

E’ il momento di prendere il “sacco nero”, tenuto scaramanticamente sul fondo dello zaino, con la speranza di non averlo mai dovuto usare, con grande difficoltà nella ricomposizione del corpo tiro su la lampo del sacco. Aiutato da tutto il gruppo , appoggiamo il corpo sulla barella e rimaniamo in attesa dell’ elicottero che lo avrebbe portato via.

Il mio cellulare squilla continuamente ed ora tocca a me tranquillizzare gli altri sebbene  io no fossi per nulla tranquilla. Con il sorriso spiego a chi me lo chiede che è tutto a posto, il Maresciallo mi avrebbe chiamata da li a poco e che sarebbe stata mia premura avvertire tutti.

L’ansia non era controllabile, mi buttai sul divano in lacrime, guardando il soffitto cercando di pensare che era tutto ok, che il maresciallo mi avrebbe chiamata presto , che avrei sentito la sua voce presto.

Dal  luogo dell’esplosione fino all’elicottero organizziamo un picchetto per rendere onore a quel ragazzo di soli 26 anni che ha dato la vita per il lavoro che ha scelto di fare, e per una terra devastata dalla guerra, per una popolazione che aveva dimostrato di apprezzare il suo aiuto, ma che gli aveva tolto la vita. La salma viene portata via. Per noi non c’ è un attimo di sosta. Iniziano gli accertamenti sul posto.

Passano ore e come un flash back di un film tutto inizia a scorrere nella tua mente. Tutto quello che è successo tutto quello che hai fatto o che avresti potuto fare. Pensi a casa. Erano nove ore che i tuoi familiari non avevano notizie. Inerme. Isolato dal mondo.

Richiamai il centralino. Il colonnello con la sua voce calma e pacata, mi fece capire che purtroppo c’ ‘erano state delle perdite, che il Maresciallo si era comportato bene, gli altri ragazzi sarebbero rientrati presto. Un tempo infinito era trascorso.

Il rientro è stato infinito.

Ora di cena. Ma non ti importa, ancora non realizzi quello che è successo, sembrava non reale.

Alla domanda: ”Marescia’ come stai?” 

“Non Lo so”.

Il mio pensiero ora era tranquillizzare Raf sapeva che sarei stato fuori per svolgere delle attività, ma non avevo mai tardato così tanto nel chiamarla..

Il colonnello mi aveva riferito che aveva avuto modo di sentirla più volte durante  svariate telefonate. Volevo chiamarla al più  presto, ma prima una telefonata, che  nonostante tutto, mi riempì’ il cuore di una gioia malinconica: “Grazie per quello che hai fatto”, mio fratello ferito mi chiamò dall’ospedale in cui era stato trasportato.

Finalmente riesco a parlare con Raffaela.

Finalmente il telefono squilla. “Hey come stai?”, la gioia era talmente tanta che non riuscivo a parlare.

Poche parole, troppe le emozioni, impossibile metterle insieme.

“Come stai? Tutto bene? Che cazzo è successo? “

“Tutto bene”.

Parlami! Continuai a fare domande a raffica, ma poi mi resi conto che dovevo rispettare quel momento . Il mio maresciallo stava bene, quando avrebbe voluto sarebbe stato lui a parlarmi di tutto.

Non riuscivo a rispondere alle sue domande.  Non in quel momento almeno. Il mio stato d’animo era confuso e mi resi conto che forse nessuno avrebbe potuto capire.

Le ore 21.00 circa in Italia e la giornata era quasi terminata. Avrei voluto prendere il primo volo e raggiungere la base a Bakwa per abbracciarti e dirti che sarebbe andato tutto bene. Il mio cuore era li con te e con tutti i tuoi fratelli.

Il giorno era giunto al termine, bisognava riposare, l’alba era vicina e nuove attività sarebbero iniziate nuovamente.

Tutti sapevamo che quelle scene e quelle immagini nessuno avrebbe potuto cancellarle dalle nostre menti, sarebbero state sempre con noi.

Qualche giorno dopo ci furono i funerali di stato a Roma, non potevo mancare. Al telefono mi hai detto:

“Mi raccomando salutalo da parte mia”.

Ricordo i tuoi occhi al tuo rientro. Vedevo immagini che non avevo vissuto. Seduti sulla panchina di Viale Marconi.

I tuoi occhi non avevano bisogno di parole.

Raf
Don’t forget to smile

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Due anime – Una storia. (II parte)

Spari e ancora spari.

Il cuore ti esce dal petto, il respiro concitato, nella mente tutto scorre ma devi pensare velocemente, riassestare i battiti ed il tuo respiro, sei stato addestrato per mantenere lucidità e freddezza. Devi contribuire a portare a casa la tua famiglia.

Rientrata a casa, tirai giù tutte le serrande affinché il sole potesse rimanere fuori, sfinita come se avessi corso delle ore mi lanciai sul divano, occhi al soffitto.

Comunicazione radio:

”Colonna in sicurezza, Maresciallo puoi intervenire!”
Devo intervenire ed in fretta, mettere in pratica tutta la mia professionalità ed esperienza. I miei fratelli hanno bisogno di me.

Non avevo fame, rimasi sul divano a guardare il soffitto per un po’ a godere della piccola brezza che attraversava le serrande.

Mi accinsi, con il giubbetto antiproiettile indossato, elmetto, fucile e zaino per il primo soccorso, ad uscire dal mezzo (in condizioni di calma si fa veramente fatica a muoversi) , la mia forza sembrava non avere limiti,  il peso assente, la fatica scomparsa.

Respiro e strani pensieri frullano nella testa…

Mi dirigo verso il luogo dell’esplosione. Vedo un corpo a terra, difficile da riconoscere, probabilmente balzato fuori dal mezzo distrutto dalla deflagrazione. Le sue condizioni non sono compatibili con la vita, nessun respiro in quel corpo martoriato da schegge e sabbia. Non posso fermarmi. Nessuna emozione mi è concessa.

Accendo e spengo la tv, mi dà noia , nulla di interessante. Decido di fare una doccia e accompagno quel momento da “Aria“ di Allevi.

Un urlo disperato attira la mia attenzione,  vedo un uomo girare su se stesso come una trottola in preda ad un forte dolore, avvolto da un polverone. Lo sento tossire. Ha bisogno di me. Lo raggiungo, gli faccio sentire la mia presenza, è al sicuro ora, ma soffre per il  dolore al torace e alla gamba. Lui è confuso,  lo tranquillizzo ed intanto cerco di capire la gravità delle lesioni. Lui si fida di me, pensa che io sia l’unica persona in grado di poterlo aiutare. Mette la sua vita nelle mie mani.

Quella giornata era strana, calda, non sapeva di buono, continuavo a sentire uno strano malessere, ma non ne capivo il motivo. Decisi di chiamare il mio Maresciallo. Sapevo che era andato fuori per delle attività, succedeva spesso. Composi il numero. Il centralino non riusciva a mettersi in contatto con la base: “Signorina non prendono la telefonata”“Ok grazie riprovo più tardi”. “Non sono ancora rientrati” pensai.

Dopo le prime valutazioni attuo le procedure di primo soccorso. Intanto gli altri continuavano a mantenere la zona in sicurezza e avevano allertato l’elicottero, che arrivò dopo poco.

La musica di Allevi fu interrotta da una telefonata di mio cognato.

“Ma come si chiama il posto dove sta il Maresciallo?”.

“Bakwa perché?”

“Cazzo! Un mezzo è esploso ci sono dei morti e dei feriti, hai sentito la notizia?”.

Cercai di mettere in fila i pensieri e capire cosa stesse succedendo esattamente: ”Non ho sentito nulla”.

Chiusi la telefonata e ricomposi il numero del centralino.

“Si attenda”..

“Salve Colonnello sono la compagna del Maresciallo, che succede e non mi dica cavolate”.

“Signorina si calmi non si preoccupi è tutto ok, stanno rientrando”.

“Senta io capisco che Lei deve tranquillizzare le persone ma così ottiene l’effetto opposto”.

“Non si preoccupi chiami più tardi parlerà lei stessa con il Maresciallo”.

Quelle parole entrarono nel sangue, come l’acqua che ti disseta nel deserto.
Era ferito, lo immobilizzo sulla barella e con cautela lo trasportiamo all’interno dell’elicottero che intanto era atterrato non lontano dal luogo dell’esplosione.

“Voglio vedere il mio compagno, come sta?” mi chiese, il mio cuore stretto in una morsa:

”Non c’ è tempo, non ha senso , ricordalo sorridente”.

L’elicottero decollò trasportandolo nell’ospedale da campo più vicino.

Internet ed i vari Mass Media iniziarono a dare le prime notizie, anche se il maresciallo mi aveva sempre detto che la maggior parte delle volte non hanno la notizia certa e completa. Non m’importava, cercavo di capire cosa fosse successo. Iniziarono anche a spuntare dei nomi…quello del maresciallo non  c’era, ma questo non mi tranquillizzava. Credo fossero le 17.30. Non avevo ancora notizie.

Tradizioni – Fratiell e Surell

Si narra in un tempo lontano, quando le stelle erano ancora visibili, che in una notte di dicembre il mare arrabbiato tentò di inghiottire dei pescatori.
Molti riuscirono a salvarsi tornando nel porto, uno solo rimase in balia delle onde. Il pescatore, sentendosi perso, affidò la sua vita nella mani della Madonna. Improvvisamente il pescatore fu abbagliato da una luce immensa e si ritrovò sulla spiaggia tramortito. Non appena riprese i sensi chiamò a raccolta tutti i suoi compagni: “Fratiell e surell a Maronn me salvat”, appicciamm o fuoc scalfammc e dicimm o rusarij” (Fratelli, sorelle, la Madonna mi ha salvato accendiamo il fuoco scaldiamoci e diciamo il rosario).
 
Da questa meravigliosa leggenda nasce una meravigliosa tradizione, tramandata di padre in figlio. La notte del 7 dicembre vengono accesi, in vari quartieri della mia città, i falò dell’Immacolata Concezione, per noi Stabiesi detti “fucaracchi”, accompagnati dalla voce di un uomo votivo che chiama a raccolta tutti i fedeli alla preghiera (proprio come il pescatore che aveva avuto salva la vita): “Fratiell e surell o nome ra maronn chest è a primma stella”.
Il rito inizia nella notte del 26 novembre fino ad arrivare alla dodicesima notte (12 notti quante le stelle sul capo della Madonna) quella appunto del 7 dicembre, alla fine della quale si suona, si festeggia e si ammirano i fuochi. In casa Anastasio si sentiva molto questa tradizione.
 
 
Tutto pronto, Presepe e Albero di Natale. La casa era un tripudio di lucine e profumi natalizi. Appuntamento annuale con struffoli, roccoco’, “pullc e monac” e mustacciuoli, dolci della tradizione natalizia napoletana. Il campanello suonava senza sosta e la casa si riempiva di “famiglia”. I maschietti in cucina a giocare a “tresette” e le donne in soggiorno a chiacchierare,  o meglio a fare “du’ n’ inciuc”, spettegolavano su questo o su quello.
Una voce radunava tutti però: “Jia pjamm a tombol” (su forza prendiamo la tombola).
 
Tutti vicini intorno al tavolo, iniziava la meticolosa scelta delle cartelle, eh già era fondamentale, c’erano quelle fortunate e quelle meno, almeno così dicevano.
Bottoni, placchettine di metallo, buccie di arancia, tutto sparso sul tavolo per coprire i numeri. Dopo aver sistemato le cartelle e raccolto i soldi distribuiti sui vari premi, (3 cartelle costavano rigorosamente 100 lire), ad iniziare il gioco con il cartellone era lui , l’inimitabile zio Ettore, che con il suo mignolo decorato con un anello d’oro a forma di serpente con un  diamantino come occhio, la catenina con un bel crocifisso per nulla modesto, (oggi un personaggio della serie “Gomorra”), iniziava ad estrarre i numeri dal cestello dopo averlo fatto roteare più e più volte. Il tutto era accompagnato da riti scaramantici, frasi improbabili e suoni discutibili.
Lo show aveva inizio.
Zio Ettore aveva la capacità di creare il panico per le risate, i numeri venivano declamati, raccontati, spesso detti anche in una lingua, che zio insisteva a chiamare inglese, ma vi garantisco non lo era affatto, era più stabiese mozzicato di un cane in corsa…spero di aver reso l’idea.
I numeri più attesi e più gettonati erano il 33 perché associato agli anni di Cristo, 55 la musica, 71 “o’ malament” dice la smorfia, un poco di buono, ma da noi rende di più con “Homme e merd”, ovviamente noi tutti indicavamo zio con quell’accezione. Era divertente.
Il numero invece, che scatenava l’ilarità in tutti noi era il numero 88. Questo numero per forma assomiglia ad una coppia di provoloni ed i provoloni sono associati al seno della donna.                                                                          La vittima consapevole del paragone del suo seno prosperoso con i provoloni era (è) zia Dina, che subiva le simpatiche angherie di zio Ettore quando l’88 veniva fuori dal cestino:
 
“Uè e billoc e stavat aspettann hann arrivat …zia Di, song e tuoij Signori e Signore i provoloni di zia Dina”…
(Eccoli li stavate aspettando, sono arrivati, zia Dina, sono i tuoi Signori e Signore i provoloni di zia Dina)
La casa era teatro naturale di commedie che venivano scritte in quell’arco di tempo determinato dall’attesa del passaggio di “fratiell e sorell”.
Tra un terno e l’altro, un caffè e l’altro, un sette e mezzo, un mercante in fiera, la voce di “fratiell e surell” piombava dentro casa, accompagnata da petardi e dall’orchestra. Infilati velocemente i cappotti, sciarpe e cappelli, si raggiungeva la voce votiva.
Una folla di fedeli al seguito, ”fratiell e surell” decantava l’ultima stella della Madonna”.
Ragazzini lanciavano petardi, l’orchestra era composta da pochi elementi tra i quali spiccava “O’ Zampugnar” che suonava brani natalizi. Era affascinante seguire quel gruppo di persone, che erano lì non come noi ragazzini per curiosità di vedere il mondo di notte, ma per devozione, per fede. Ognuna di quelle persone chiedeva qualcosa o aveva già ricevuto qualcosa e aveva trascorso 12 notti in quel percorso per ringraziare la Madonna.
Per noi il percorso era breve e durante il tragitto qualche falò schioppettava, emanava calore e luce.
 
 
Erano le 6 quando si tornava a casa, dopo aver assistito alla celebrazione della Santa Messa, con un occhio chiuso e l’altro aperto.
Quegli anni tutto ero diverso
tutto sapeva di buono
di famiglia.
 
 
 
 
 
 
Raf
Don’t forget to smile
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Un pensiero tra le dita

Uno sguardo oltre e
quanta felicità;
quante lacrime;
quanti dubbi;
quanta sofferenza;
quanta follia;
quante persone transitate e scomparse;
quante persone incontrate e rimaste;
quante parole dette;
quanta gioia ricevuta con una sola carezza, un solo abbraccio, un solo, unico contatto;
quanti sorrisi donati;
quanto stupore, quanta meraviglia nei miei occhi;
quanta rabbia in una lacrima;
quanti sguardi;
quanti silenzi;
quanti pensieri impigliati tra quelle rughe;
quanti successi;
quante altre Me ho incontrato e conosciuto;
quanta terra nel mio sangue.
Un unico percorso, più strade intraprese, non ho mai capito quale fosse quella giusta per me, o forse si, non so, intanto viaggio.
La mia vita, tutto qua!
 
Don’t forget to smile
Raf
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Il Generale

“Lei è l’emblema della donna moderna…”
Ecco cosa mi ha detto il Generale quella mattina…

Le mie giornate iniziano apparentemente allo stesso modo, ma non quella mattina.
No! Quella mattina profumava di buono.
6.45 Mornig Flower, così la sveglia del mio fantastico Samsung S6 mi comunica che è ora di alzarmi.
Dopo aver stiracchiato bene la schiena, lotto con il cuscino per convincerlo a lasciare la mia faccia. La maggior parte delle volte perdo.
Radio, colazione, doccia, i tre riti (ci sarebbe anche la pipì, ma tralascio) per iniziare alla grande la giornata.
Preparato l’occorrente per l’ufficio ed il pranzo (rigorosamente scongelato la sera prima e preparato dalle sapienti mani di mammà), mi catapulto fuori della porta, con una mano chiudo a chiave, con l’altra pigio il pulsante dell’ascensore che non tarda ad arrivare, un tonfo annuncia la sua presenza al piano.
Per ingannare l’attesa durante il minuto di discesa, mi guardo allo specchio cercando di individuare chi sia la tizia riflessa, in fondo è anche per questo che hanno deciso di mettere degli specchi all’interno degli ascensori, no?
Il narcisismo sovrasta la claustrofobia, così tutto dura il tempo di un respiro, e..tonfo.

Il mio primo buongiorno va al portiere Sergio, che di buon mattino è nelle sue faccende affaccendato. Quella mattina però non era solo, a fargli compagnia c’era il Generale.

Il Generale è un anziano signore, ossatura robusta, pancetta in evidenza, capello brizzolato, uomo del nord, fiero ed orgoglioso di aver dedicato la sua vita all’esercito italiano, la sua andatura e il suo mento alto, il suo modo di gesticolare, ne sono la prova.
Trasferito a Roma per amore è ormai in pensione.
Il Generale cerca di mantenersi sempre in attività soprattutto durante le riunioni di condominio, in cui riesce a zittire tutti, anche nei momenti di caos più totale. Lui è Il Generale tutti sull’attenti!

Prima di allontanarmi lo saluto cordialmente e mi accingo a liberare il mio SH dalla catena, dopo un po’ una voce:
“Signorina!”, seguì una sonora risata, “che gioia lei è l’emblema della donna moderna”.
Fui spiazzata da quelle parole, ad essere sincera, proprio emblema non mi sentivo, ma il Generale mi incuriosì:
“Generale, grazie ma non credo…”, vi confesso, non sapevo cosa volesse dirmi, ma l’ho adorato, mi aveva chiamata “Signorina”.
“Sa signorina, io la osservo, vedo che è in pieno possesso del suo mezzo di locomozione” (che suonava, con il suo accento, “mezo di locomossione”), continuò:
” Ai miei tempi era impossibile vedere una donna guidare o stare a cavalcioni su di una vespetta, sempre entrambe le gambe su un lato… altri tempi, altri tempi, eh… lo si vede da come guida che è affar suo quella roba lì.”
Avreste dovuto vedere il viso del Generale mentre mi diceva queste cose.
I suoi occhi persi nel vuoto stavano attraversando a ritroso il tempo passato, il ricordo di un tempo vissuto ormai lontano. Poi all’improvviso, come il pesce sguizza per catturare la sua preda, il Generale puntò quegli occhi su di me e disse: “Signorina Grazie”.
“Generale, di cosa?”
“Il suo sorriso”.
Accipicchia forse avevo qualcosa nei denti, forse la marmellata di more…
Ecco, sentivo la mia pelle accaldarsi, sentivo le braccia e poi il collo, il viso colorarsi del colore del melograno maturo, imbarazzatissima, non capivo.
“Signorina, il suo sorriso mi regala gioia, mi illumina la giornata, è un soffio di vento fresco, un raggio di sole raggiunge il mio cuore tutte le volte che la vedo sorridere”.
Silenzio.
Il respiro titubante.
Bocca impastata, nessuna parola, nessun suono.
Ero un groviglio di emozioni, ero lusingata, sbalordita…
Un Uomo così apparentemente duro, impostato, dedito a dare ordini, si era soffermato su di un unico particolare, aveva dato attenzione all’impensabile, un sorriso.
Tutte le emozioni stavano prendendo una strada comune, un unico canale.
Si concentrarono in unica goccia piena di gioia, quella lacrima, che non tardò a solcare il mio viso.
…una sintesi perfetta di parole, che sarebbero state inutili e non sufficienti.
Il Generale notò anche quella lacrima e mi disse: “vede avevo ragione lei è proprio un raggio di sole”.
Quella mattina profumava di buono.
Dont’ forget to smile
Raf

 

Mettersi in gioco….

Una bellissima immagine di me, di tanto in tanto appare nella mia mente come un flashback.
Una ragazzina di circa 10 anni, seduta con la schiena ben dritta al tavolo del soggiorno intenta a fare qualcosa di grandioso, di straordinario…scrivere un libro.

L’eccitazione era talmente tanta che nella preparazione di ciò che mi serviva, fui meticolosa come un giapponese durante il rito del thè… ogni oggetto, ogni movimento dedito ad un unico scopo.

Mio zio possedeva, in realtà ancora oggi, una macchina da scrivere Olivetti, meravigliosa, tenuta come un gioiello, di quelli più cari e più preziosi, non solo per il valore economico, ma soprattutto affettivo.
Con un po’ di timore decisi di chiederla in prestito.
Avevo tra le mani il mio destino, pensavo…
Appoggiai la macchina sul tavolo del soggiorno, con cura la spostai proprio sul bordo in modo che potessi muovere liberamente le mani e le braccia, tolsi la custodia, una sorta di copertina che proteggeva la macchina dalla polvere e da tutto ciò che avrebbe potuto danneggiarla, la sistemai su un angolo del tavolo.
Avevo bisogno della carta.
Strappai un foglio da un quaderno di scuola, e lo posi dal lato lungo, dopo aver alzato l’asticella del blocco sul rullo, inserii il foglio e riposi l’asticella al suo posto.
Il cuore scandiva il tempo delle mie azioni.
Non avevo mai usato una macchina per scrivere, a malapena sapevo usare la penna, per cui decisi che era necessario fare una prova che mi permettesse di capire la funzionalità.
Iniziai a battere con un solo dito i tasti a casaccio, con la velocità di un bradipo in letargo, controllando dopo ogni pressione, se la lettera venisse stampata sulla carta.
Dopo svariate prove, avevo appreso che potevo andare a capo spostando il rullo,
lasciare lo spazio,
scrivere in maiuscolo,
e all’occorrenza cambiare colore dal nero al rosso (decisi che avrei usato il rosso per il numero ed i titoli dei capitoli).
Era tempo di dare vita a quelli che erano stati, fino a quel momento solo pensieri.
Mi serviva della carta pulita, allora attinsi al quadernone, quello usato per le ricerche “in bella copia”, replicai l’inserimento nel rullo..
e via…
Un respiro mi inoltrò in un mondo tutto mio, i tasti iniziarono a suonare una melodia simile ad un lento “tip tap”.

“Ero soltanto una sorta di pesciolino trasparente, diretto chissà dove, spinta in un viaggio che non avevo deciso, ma che mi incuriosiva, volevo vedere!!
Non ero sola altri accompagnavano il mio viaggio.
Una corsa affannata per raggiungere l’obiettivo, una corsa verso l’ignoto, verso qualcosa che non conoscevo, ma desideravo conoscere.
Molti di coloro che mi accompagnavano non sostenevano il ritmo della corsa e restavano indietro…
non avrei mollato come loro, volevo vedere!!
Mi sentii inebriata di energia, come un soffio di vento che gonfia una vela e spinge la barca verso il mare aperto.
Mi ritrovai li… davanti alla mia isola….
la luce ed il calore erano come calamita per me;
mi insinuai in una fessura attraverso la quale neanche uno spillo sarebbe potuto passare…
e li…
i miei occhi si socchiusero, mi lasciai coccolare da quel calore, dal tepore,
ero protetta, al sicuro avevo raggiunto il mio obiettivo.
Ora avrei potuto vedere!!”

I tasti continuavano a ticchettare, ed il rullo che rientrava in posizione iniziale, tutte le volte emetteva uno strano suono, ancora vivo nella mia memoria.
Ma quel momento intimo, ipnotizzata da quella strana musica, fu interrotto da una voce poco soave:
“Raffa a pranzo sbrigati chiudi tutto”…. mia madre.
La nonna aveva preparato i rigatoni al sugo, quel sugo magico, insuperabile che diffonde il suo profumo meraviglioso fino giu’ nel cortile, quel profumo che mi è entrato nel sangue.

Questo quel che ricordo.
Non ho piu’ continuato a scrivere quel libro, probabilmente distolta da altro e dalla giovane età, ma ho continuato a scrivere il “Mio Diario”, quello che mi ha accompagnato in tutti gli anni scolastici e oltre, la mia amata Smemoranda.
La voglia ed il piacere di scrivere non li ho mai persi,
ed eccomi qua, forse non per riprendere a scrivere quel libro, ma per raccontarvi di me e condividere con voi i miei pensieri, le miei giornate, la mia vita.
Spezzare la quotidianità e magari perché no, riuscire a regalarvi un sorriso….

Don’t forget to smile
Raf