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Due anime – Una storia. (fine)


Raccolgo la forza rimasta e mi dirigo verso l’altro fratello coinvolto.

La scena che mi trovo davanti è terrificante.

Purtroppo non c’è più nulla da fare, solo recuperare il corpo senza vita con rispetto e dignità.

Forse il compito più difficile.

E’ il momento di prendere il “sacco nero”, tenuto scaramanticamente sul fondo dello zaino, con la speranza di non averlo mai dovuto usare, con grande difficoltà nella ricomposizione del corpo tiro su la lampo del sacco. Aiutato da tutto il gruppo , appoggiamo il corpo sulla barella e rimaniamo in attesa dell’ elicottero che lo avrebbe portato via.

Il mio cellulare squilla continuamente ed ora tocca a me tranquillizzare gli altri sebbene  io no fossi per nulla tranquilla. Con il sorriso spiego a chi me lo chiede che è tutto a posto, il Maresciallo mi avrebbe chiamata da li a poco e che sarebbe stata mia premura avvertire tutti.

L’ansia non era controllabile, mi buttai sul divano in lacrime, guardando il soffitto cercando di pensare che era tutto ok, che il maresciallo mi avrebbe chiamata presto , che avrei sentito la sua voce presto.

Dal  luogo dell’esplosione fino all’elicottero organizziamo un picchetto per rendere onore a quel ragazzo di soli 26 anni che ha dato la vita per il lavoro che ha scelto di fare, e per una terra devastata dalla guerra, per una popolazione che aveva dimostrato di apprezzare il suo aiuto, ma che gli aveva tolto la vita. La salma viene portata via. Per noi non c’ è un attimo di sosta. Iniziano gli accertamenti sul posto.

Passano ore e come un flash back di un film tutto inizia a scorrere nella tua mente. Tutto quello che è successo tutto quello che hai fatto o che avresti potuto fare. Pensi a casa. Erano nove ore che i tuoi familiari non avevano notizie. Inerme. Isolato dal mondo.

Richiamai il centralino. Il colonnello con la sua voce calma e pacata, mi fece capire che purtroppo c’ ‘erano state delle perdite, che il Maresciallo si era comportato bene, gli altri ragazzi sarebbero rientrati presto. Un tempo infinito era trascorso.

Il rientro è stato infinito.

Ora di cena. Ma non ti importa, ancora non realizzi quello che è successo, sembrava non reale.

Alla domanda: ”Marescia’ come stai?” 

“Non Lo so”.

Il mio pensiero ora era tranquillizzare Raf sapeva che sarei stato fuori per svolgere delle attività, ma non avevo mai tardato così tanto nel chiamarla..

Il colonnello mi aveva riferito che aveva avuto modo di sentirla più volte durante  svariate telefonate. Volevo chiamarla al più  presto, ma prima una telefonata, che  nonostante tutto, mi riempì’ il cuore di una gioia malinconica: “Grazie per quello che hai fatto”, mio fratello ferito mi chiamò dall’ospedale in cui era stato trasportato.

Finalmente riesco a parlare con Raffaela.

Finalmente il telefono squilla. “Hey come stai?”, la gioia era talmente tanta che non riuscivo a parlare.

Poche parole, troppe le emozioni, impossibile metterle insieme.

“Come stai? Tutto bene? Che cazzo è successo? “

“Tutto bene”.

Parlami! Continuai a fare domande a raffica, ma poi mi resi conto che dovevo rispettare quel momento . Il mio maresciallo stava bene, quando avrebbe voluto sarebbe stato lui a parlarmi di tutto.

Non riuscivo a rispondere alle sue domande.  Non in quel momento almeno. Il mio stato d’animo era confuso e mi resi conto che forse nessuno avrebbe potuto capire.

Le ore 21.00 circa in Italia e la giornata era quasi terminata. Avrei voluto prendere il primo volo e raggiungere la base a Bakwa per abbracciarti e dirti che sarebbe andato tutto bene. Il mio cuore era li con te e con tutti i tuoi fratelli.

Il giorno era giunto al termine, bisognava riposare, l’alba era vicina e nuove attività sarebbero iniziate nuovamente.

Tutti sapevamo che quelle scene e quelle immagini nessuno avrebbe potuto cancellarle dalle nostre menti, sarebbero state sempre con noi.

Qualche giorno dopo ci furono i funerali di stato a Roma, non potevo mancare. Al telefono mi hai detto:

“Mi raccomando salutalo da parte mia”.

Ricordo i tuoi occhi al tuo rientro. Vedevo immagini che non avevo vissuto. Seduti sulla panchina di Viale Marconi.

I tuoi occhi non avevano bisogno di parole.

Raf
Don’t forget to smile

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Due anime – Una storia. (II parte)

Spari e ancora spari.

Il cuore ti esce dal petto, il respiro concitato, nella mente tutto scorre ma devi pensare velocemente, riassestare i battiti ed il tuo respiro, sei stato addestrato per mantenere lucidità e freddezza. Devi contribuire a portare a casa la tua famiglia.

Rientrata a casa, tirai giù tutte le serrande affinché il sole potesse rimanere fuori, sfinita come se avessi corso delle ore mi lanciai sul divano, occhi al soffitto.

Comunicazione radio:

”Colonna in sicurezza, Maresciallo puoi intervenire!”
Devo intervenire ed in fretta, mettere in pratica tutta la mia professionalità ed esperienza. I miei fratelli hanno bisogno di me.

Non avevo fame, rimasi sul divano a guardare il soffitto per un po’ a godere della piccola brezza che attraversava le serrande.

Mi accinsi, con il giubbetto antiproiettile indossato, elmetto, fucile e zaino per il primo soccorso, ad uscire dal mezzo (in condizioni di calma si fa veramente fatica a muoversi) , la mia forza sembrava non avere limiti,  il peso assente, la fatica scomparsa.

Respiro e strani pensieri frullano nella testa…

Mi dirigo verso il luogo dell’esplosione. Vedo un corpo a terra, difficile da riconoscere, probabilmente balzato fuori dal mezzo distrutto dalla deflagrazione. Le sue condizioni non sono compatibili con la vita, nessun respiro in quel corpo martoriato da schegge e sabbia. Non posso fermarmi. Nessuna emozione mi è concessa.

Accendo e spengo la tv, mi dà noia , nulla di interessante. Decido di fare una doccia e accompagno quel momento da “Aria“ di Allevi.

Un urlo disperato attira la mia attenzione,  vedo un uomo girare su se stesso come una trottola in preda ad un forte dolore, avvolto da un polverone. Lo sento tossire. Ha bisogno di me. Lo raggiungo, gli faccio sentire la mia presenza, è al sicuro ora, ma soffre per il  dolore al torace e alla gamba. Lui è confuso,  lo tranquillizzo ed intanto cerco di capire la gravità delle lesioni. Lui si fida di me, pensa che io sia l’unica persona in grado di poterlo aiutare. Mette la sua vita nelle mie mani.

Quella giornata era strana, calda, non sapeva di buono, continuavo a sentire uno strano malessere, ma non ne capivo il motivo. Decisi di chiamare il mio Maresciallo. Sapevo che era andato fuori per delle attività, succedeva spesso. Composi il numero. Il centralino non riusciva a mettersi in contatto con la base: “Signorina non prendono la telefonata”“Ok grazie riprovo più tardi”. “Non sono ancora rientrati” pensai.

Dopo le prime valutazioni attuo le procedure di primo soccorso. Intanto gli altri continuavano a mantenere la zona in sicurezza e avevano allertato l’elicottero, che arrivò dopo poco.

La musica di Allevi fu interrotta da una telefonata di mio cognato.

“Ma come si chiama il posto dove sta il Maresciallo?”.

“Bakwa perché?”

“Cazzo! Un mezzo è esploso ci sono dei morti e dei feriti, hai sentito la notizia?”.

Cercai di mettere in fila i pensieri e capire cosa stesse succedendo esattamente: ”Non ho sentito nulla”.

Chiusi la telefonata e ricomposi il numero del centralino.

“Si attenda”..

“Salve Colonnello sono la compagna del Maresciallo, che succede e non mi dica cavolate”.

“Signorina si calmi non si preoccupi è tutto ok, stanno rientrando”.

“Senta io capisco che Lei deve tranquillizzare le persone ma così ottiene l’effetto opposto”.

“Non si preoccupi chiami più tardi parlerà lei stessa con il Maresciallo”.

Quelle parole entrarono nel sangue, come l’acqua che ti disseta nel deserto.
Era ferito, lo immobilizzo sulla barella e con cautela lo trasportiamo all’interno dell’elicottero che intanto era atterrato non lontano dal luogo dell’esplosione.

“Voglio vedere il mio compagno, come sta?” mi chiese, il mio cuore stretto in una morsa:

”Non c’ è tempo, non ha senso , ricordalo sorridente”.

L’elicottero decollò trasportandolo nell’ospedale da campo più vicino.

Internet ed i vari Mass Media iniziarono a dare le prime notizie, anche se il maresciallo mi aveva sempre detto che la maggior parte delle volte non hanno la notizia certa e completa. Non m’importava, cercavo di capire cosa fosse successo. Iniziarono anche a spuntare dei nomi…quello del maresciallo non  c’era, ma questo non mi tranquillizzava. Credo fossero le 17.30. Non avevo ancora notizie.

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Antica Babilonia

Ore 8.45 la mattina del 12 novembre alla radio:
“Due veicoli carichi di esplosivo lanciati contro la base militare italiana , una sparatoria. Circa 20 i feriti molto gravi, a Nassiryia sono le ore 10.40 del mattino”.Ancora:
“Un camion ha forzato il posto di blocco. Un cratere immenso, quattro Kamikaze responsabili della missione suicida. In Iraq strage di italiani”.

In quell’istante la guerra che pensavo fosse lontana, con prepotenza entrò in casa mia.
A Nassiryia due palazzine in cui risiedevano  i militari del contingente italiano in Iraq, per la missione “Antica Babilonia”, sventrate da un attacco Kamikaze.

Fumo, muri che crollavano, sirene di ambulanze, vigili del fuoco, macchie di sangue sul selciato, persone che fuggivano terrorizzate, bambini in preda al panico in lacrime, macerie e distruzione, queste le immagini trasmesse da tutti i notiziari  nazionali.

Fidanzata con Giovanni ex paracadutista del 183° Reggimento Paracadutisti Nembo (nucleo operativo), in quel momento allievo della scuola sottufficiali dell’ esercito, amica storica di due allievi della “Scuola Ufficiali dei Carabinieri”, Antonio e Gennaro, non potevo che essere partecipe, il mio cuore per 3/4 militare, iniziò a pompare terrore nelle vene.

Chiamai immediatamente il mio fidanzato, ovviamente era informato su tutto prima ancora che i giornalisti dessero la notizia. Purtroppo era tutto vero.
Seguivo gli aggiornamenti costantemente.
Appresi che i  funerali solenni  ci sarebbero stati il 18 Novembre presso la Basilica di San Paolo,  per cui sei giorni dopo la strage, l’ultimo saluto alle vittime di un’assurda guerra voluta da altri.
Abitavo in via Nonantola una stradina non molto lontana dalla Basilica di San Paolo, per cui a piedi mi incamminai.
Ero agitata, triste, pensavo e ripensavo al mio fidanzato e ai miei amici , una cosa del genere a loro, non l’avrei mai  potuta superare.
Il 18 novembre, andai a salutare i ragazzi e credo che anche il sole volesse salutarli.
Con il cuore triste e l’animo inquieto raggiunsi i giardini della Basilica, dove nonostante la miriade di persone, regnava la compostezza ed  il silenzio, solo un gruppetto di giovani, accovacciati vicino ad un albero, con la voce strozzata dal pianto, cercava di intonare un'”Alleluja”.
La Basilica era tutta transennata, mi feci spazio tra la folla e liberai la mia visuale.
Alte cariche dell’ Esercito e dell’Arma dei Carabinieri vestiti di tutto punto impartivano ordini … Eh tutti di un pezzo Loro! Fieri delle loro stelline ed i loro nastrini sul petto.
Accanto a me un gruppetto di anziani con uno strano berretto in testa, probabilmente ex militari ma non ho idea di quale fosse il loro reparto di appartenenza. Vederli insieme, così uniti, così orgogliosi, mi rese ancor più fiera di essere italiana.
Le campane iniziarono a suonare.
Rintocchi lenti, secchi quasi senza riverbero.
Un applauso partito da lontano arrivò fino alla mia postazione come un’onda travolgente e la sua voce urlava impetuosa.
19 camion aperti
19 letti di morte
19 bandiere italiane
19 anime

L’appaluso infinito accompagnava le lacrime che nessuno voleva trattenere. Tutti avevano necessità di esprimere la propria tristezza, l’amarezza.
Io, osservatrice, ammutolita, impietrita, davanti ad una realtà cosi’ crudele, quasi irreale, le lacrime sgorgavano disperate scivolando sul mio viso, senza sosta.
I 19 camion sostarono nel cortile, ed i letti di morte furono portati all’interno della Basilica, a spalla, da colleghi e amici che a stento riuscivano a trattenere il proprio dolore.
Uno degli anziani signori con il berretto mi appoggiò una mano sulla spalla e mi disse:
“Coraggio ci vuole solo coraggio!”
Parole di un uomo saggio con gli occhi tristi, chissà  quegli occhi quale altra tragedia avevano dovuto vedere.
19 vite spezzate, ragazzi, mariti, figli, fratelli, amici, strappati alla vita, per supportarne altre di un popolo a cui non appartenevano.
Persone comuni nella loro straordinarietà, persone che hanno sacrificato la loro famiglia, per altre, persone con necessità differenti, con dei sogni, con delle speranze.
Persone con una coscienza.
A loro è stata dedicata  una scultura “La foresta d’acciaio”  nei giardini della Basilica di San Paolo;

Pilastri di metallo,  freddi, come  i proiettili ghiacciati, come le menti malate degli attentatori, privi di anima come una guerra senza senso. Questo è rimasto di loro. Questo il valore che è stato concesso.
Sospiri eterei, anime danzanti tra le nuvole, sorrisi del sole , ecco a me piace immaginarli così…
Don’t forget to smile
Raf