Rosso pomodoro
Il rumore del metallo, l’acqua che bolliva, il calore del fuoco, i pomodori, il sole, i sorrisi.
Ferma ai giardini a leggere “ IQ84”, l’omino lavorava armato di cuffie arancioni e tosaerba. Era lento nei suoi movimenti . Lo sforzo piegava i muscoli che si contraevano durante la spinta in avanti della macchina e tra le lame in basso fuoriuscivano piccoli ciuffi di erba. Avete presente il profumo dell’erba? Ha un odore particolare, ma quando viene tagliata l’odore si accentua, è ancora più forte ed entra quasi di prepotenza nelle narici, diffondendosi nel sangue lasciando un segno nella memoria, indelebile. Quel profumo risvegliò in me vecchie sensazioni.
Il mio sguardo fisso sull’omino a lavoro.Una splendida giornata il sole riempiva il cielo, la mente mi guidò su una mano destra, il pollice e l’indice tenevano un rosso pomodoro all’estremità, che a causa di una forte pressione esplose.
Era la stagione del raccolto di pomodori ,” i San Marzano” , quelli che il mondo ci invidiava. Casa Anastasio fremeva di lavoro. Il giardino pullulava di gente e di ragazzini.
Mio padre dopo aver acquistato dal contadino qualche quintale di pomodori dislocati in tutto il giardino nelle varie cassette di plastica colorate, si dedicava al lavaggio delle bottiglie, con un fantastico scovolo rosso ed al lavaggio dei pomodori.
Una bagnarola gigante blu, che solitamente usavo per fare il bagno caldo in inverno, veniva usata come recipiente per riporre i pomodori da lavare. Una pompa che donava acqua fresca senza sosta era appoggiata all’interno. Mio padre chinato sulla bagnarola, con una mano appoggiata sul manico per reggersi , l’altra invece era immersa intenta a girare e rigirare i pomodori in modo che potessero essere lavati bene. Era possente tutti i muscoli delle braccia e della schiena erano a lavoro, il movimento del braccio destro comportava delle contrazioni più evidenti della fatica effettuata. Era bello vederlo all’opera. Spesso volevo rubargli il posto, adoravo stare nell’acqua.
Dopo questa lunga operazione i pomodori andavano riposti nelle cassette e a gruppi messi in uno scolapasta affinché l’acqua potesse scivolare via.
Estirpato, emanava quell’odore, l’odore dell’erba tagliata.
“ Ovvi , pij a pummarol e po le a premmr ( vedi prendi il pomodoro e poi lo devi premere) o puliz e o miett ca dint ( lo pulisci e lo metti qui dentro)”
Il pollice e l’indice tenevano il pomodoro alle due estremità che con una leggera pressione causavano un’apertura al centro, attraverso cui i semini contenuti all’interno venivano espulsi.
I pomodori avevano quel profumo, di fresco, di buono.
Eravamo una catena perfetta, mia sorella ed io ci divertivamo a pressare i pomodori. Fare uscire i semini diventava un momento goliardico, perché casualmente invece di finire nel recipiente, si spiaccicavano sugli occhialoni viola della nonna, che rideva e ci sgridava.
La nonna e zia Marga erano addette al riempimento, la parte quasi più importante. Bisognava mettere i pomodori nelle bottiglie e schiacciarli in modo da togliere l’aria all’interno, lo facevano con tanta dimestichezza che sembrava lo facessero da sempre. La mano chiusa a pugno, l’indice ed il medio un po’ più sporgenti, pigiavano i pomodori fino ad appiattirli, inserendo poi una foglia di basilico fresco che avevano preparato precedentemente.
Si andava avanti fino a sera, ma l’aria tiepida e l’abbraccio del tramonto rendevano tutto leggero per nulla faticoso.
Finito di riempire le bottiglie, chiuse con un tappo ed un aggeggio simile ad un cavatappi, mio padre preparava il bidone.
Il bidone era un fusto di metallo a forma cilindrica, che papà da ragazzino affittava con 100 lire per tutto il tempo che serviva, nel nostro caso invece, era stato preso in prestito dai cantieri navali. Con molta cura, in un angolo del giardino, sistemava dei mattoni formando un quadrato ma con il lato centrale aperto, per poter inserire la legna, come una brace. Il bidone andava posto su quella brace.
Iniziava così il passaggio di un centinaio di bottiglie da una mano all’altra fino ad arrivare a mio padre , che arrampicato come una scimmia inseriva le bottiglie nel bidone facendo attenzione a non spaccarle.
“ Papi perché metti la stoffa sulle bottiglie?”
“Perché quando l’acqua bolle può spostare le bottiglie e si possono rompere invec accussì stann chiu comod” ( invece così non urtano tra loro). Poi ci mettiamo l’acqua fino a ncopp e mettim o cupierc.
Prima di chiudere il coperchio però si usava mettere una patata per capire il livello di cottura.
Era il momento di accendere la brace, la legna era al suo posto, un po’ di carbonella e qualche foglio di giornale imbevuto di alchool, ed era fatta, a fuoco acceso era inevitabile l’applauso e qualche urla di approvazione.
Il buio calava lentamente, la luce del fuoco e di qualche lampada accesa in giardino creavano un’atmosfera di totale relax, anche l’ora di cena tardava ad arrivare e spesso si mangiava la pizza tutti insieme all’aperto, altre volte ci si arrangiava con quello che c’èra in casa, spesso pane con formaggio e qualche insaccato in attesa della fine del lavoro. Ci sedevamo dove capitava per mangiare, preferivo sedere a terra o sulle scale di ingresso a piedi rigorosamente scalzi.
Un momento di ritrovo tutto nostro. Si chiacchierava, si rideva, si giocava, fino a quando il coperchio del bidone non catturava la nostra attenzione facendo strani rumori sollevato dall’acqua in ebollizione. Il fuoco andava diminuito e reso più debole, ne approfittavamo per cuocere delle verdure o patate al cartoccio buonissime. Le nostre conserve erano pronte. Non vedevo l’ora che la nonna ci preparasse un sugo speciale. Il fuoco era quasi spento.
Un rumore assordante di un’ambulanza distolse il mio sguardo dall’omino, avevo le scarpe, tra le mani il mio libro. Mi ritrovai sulla panchina… un flashback ma questa volta non un film, ma la mia vita.
Respirai ancora una volta quel profumo.
Mi allontanai.
l sole mi aveva regalato un nuovo sorriso.
Raf
Dont’ forget to smile
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