LEI…ricordi passati di un vivo presente.
Una sedia di legno, con la seduta in paglia tutta intrecciata, rendeva quell’angolo speciale.
Era diventato un rito, il mio rito preferito, la condivisione di attimi solo nostri.In lontananza note napoletane entravano nelle mie orecchie come zanzare assetate di sangue, il mio vicino innamorato dei neomelodici, aveva l’usanza di cantare passando da una nota stonata all’altra…..
Era domenica.
La domenica era sempre una festa di colori e di cibo, tutti in movimento in casa, come piccole formichine indaffarate ognuna con il proprio compito.
Il richiamo della signora VuèVuè, ti regalava il sorriso del giorno.
(Nunziatina, in arte la signora VuèVuè perché passava tutte le domeniche annunciando il suo arrivo al grido: “VuèVuè quant’ cos’ belle VuèVuè”, cercando di vendere qualche vestito del suo fagotto).
Ma La regina suprema era Lei.
La sua chioma grigia, le sue forme morbide.
Le sue gambe reggevano il peso della storia di nove nuove vite. Le sue mani, che in passato avevano cucito, ora affaticate dal tempo, compivano un rituale conosciuto ed esperto.
La cucchiarella di legno prima toccava il fondo e poi il bordo della pentola che accoglieva il pomodoro fresco.
Mentre Lei mescolava con cura, le polpette di carne appoggiate nella pirofila bianca attendevano di essere immerse nella padella, dove l’olio iniziava a fare sentire la sua voce.
Tutto avveniva con estrema precisione, non studiata.
Il pane acquistato fresco dal signor Pio, veniva tirato fuori dal sacchetto e tagliato a fette uguali, il coltello come un’onda del mare, le briciole… le sue gocce.
Tutto sembrava scandito da un tempo sconosciuto, da una musica mai scritta, ma udibile in quegli attimi.
Ed era così che mi svegliavo, inebriata dal profumo del basilico e amore.
La mia colazione? “cuzzetiello” e sugo (la parte iniziale o finale del pane inzuppato nel sugo).
Una droga pura.
Un sapore che arrivava in bocca, diffondendosi sul palato, alla gola e giu’… permanente. Impossibile fermarsi, se non con un sonoro: “E bast mo, jà vatt a lava’ a facc!” (basta ora vai a lavarti il viso).
Ma la domenica pensare di lavarsi… proprio no.
La mia domenica era fatta per stare in pigiama, andare scalza in giro per casa, aspettando che mia madre mi dicesse urlando : “Raffaaa metti le ciabatteeee” non l’ho mai ascoltata.
Era sempre tutto pronto, troppo presto.
Lei in attesa del pranzo, si accomodava sulla sediolina di legno, nell’angolo della stanza, vicino alla finestra, dall’altra parte appeso al muro c’era uno specchio double face, su di un lato rifletteva il tuo viso umano, dall’altra parte un mostro con un attacco di allergia.
L’attesa andava presa di petto.
Mentre Lei iniziava a tirarsi il viso deformandolo, la sua faccia acquisiva espressioni buffe.
Io: “Che fai?”
Lei: “M’ aggia livà sti rui pil.”
Io: “ah la barbetta.”
Lei: “E ch vuo’ fa.”
Io: “Posso fare io?”
Lei: “E tiè!”
A cavalcioni su di lei, con gli occhi ancora pieni di granelli di lacrime lasciati da Morfeo, mentre la mano destra reggeva la pinzetta, la sinistra era intenta a stendere la pelle con il pollice e l’indice.
Ero pronta!
Come un chirurgo alla sua prima operazione importante, ero lenta ed accurata e al primo pelo estirpato dal bulbo dissi in cerca di approvazione:
“Guarda!”
“Brav a nonn”.
L’operazione continuò per i 10 minuti successivi tra risate e i suoi mugolii doloranti.
Il tempo si fermava.
Gli attimi erano diventati infiniti, la nostra complicità, le nostre risate… Tu.
Tutte le domeniche il rito si ripeteva, ne ricordo ogni istante.
Qualcuno ha detto: “Le persone muoiono solo se il tuo cuore le dimentica.”
Questo mio secondo post lo dedico a Lei.
Ha riempito di sole la mia infanzia.
Mi ha regalato sorrisi che ho imparato a donare.
Don’t forget to smile
Raf
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